Titta Zarra

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13 maggio 2014                                                           don Titta Zarra nel ricordo di Lidano Serra

Don Titta Zarra, il Parroco del Sorriso

Lunedì 31 marzo 1969 la Radio Vaticana, con il titolo “ Operaio delle onde”, dava il seguente commosso partecipato annuncio :  

<< A Sezze Romano i funerali del sacerdote Giovanni Battista Zarra, deceduto in un incidente stradale, sabato scorso. Personalità ed amici sono intervenuti per testimoniargli la stima e l’affetto. Li meritava per quelle doti singolari di bontà, di cultura e di operosità di cui dette prova nella sua vita di parroco, di insegnante, di studioso e pubblicista. 
I nostri ascoltatori lo conoscevano come: don Titta. 
Da anni era l’autore di intelligenti e vivaci rubriche della Radio Vaticana. 
Umanità e genialità si armonizzavano con la sua fede schietta e trasparente. In lui l’uomo arricchiva il sacerdote e il sacerdote qualificava l’uomo. 
La sua dote più spiccata era la versatilità, provata dall’ampia e varia collana di xilografie, così chiamava le recensioni di alcuni centinaia di libri i più diversi, che egli redasse per le nostre trasmissioni. 
Nei lunghi anni di collaborazione furono anche i “Dialoghi della fede” e le meditazioni del mese mariano. Preparava con squisita sensibilità le elevazioni spirituali destinate a cogliere il senso di cristiana attualità, delle maggiori festività dell’anno.  Una delle nostre rubriche fu quasi esclusivamente sua. La rievocazione delle figure di santi e di beati nell’occasione della loro elevazione agli onori degli altari. Come molti ricorderanno, egli le preferiva in forma recitativa e vi si riconoscevano e apprezzavano le sue singolari capacità di cultore del teatro religioso. 
Lo ricordiamo con rimpianto ed affetto. E affidiamo questa sua vita, così inaspettatamente interrotta, alla speranza cristiana dell’altra, definitiva e perfetta. 

(da “Ecclesia Mater” – 2/69 – Pag. 127) >>. 

Giovanni Battista Zarra, da tutti conosciuto come Don Titta, nato a Sezze l’otto aprile 1917 (giorno di Pasqua) e deceduto, in un incidente stradale sulla Via Appia, il 29 Marzo 1969, ancora oggi ricordato, con affetto e rimpianto, da tutti coloro che lo hanno conosciuto, e al quale a 33 anni dalla sua dipartita la sua città natale, con una semplice ma sentita cerimonia, ha voluto intitolargli la “Casa della Cultura”, prima che artista della penna è stato sacerdote e parroco. 
Ordinato sacerdote il 23 giugno 1940, appartenne alla diocesi di Sezze. Esercitò il ministero fra i poveri a Colli di Suso e poi come parroco di Santa Parasceve in Sezze dal 1° aprile 1946. Dedicò le sue cure sacerdotali specialmente ai moribondi, ai bambini e ai giovani. 
Intelligenza versatile e brillante si occupò come insegnante di religione dei liceali e come assistente ecclesiastico degli universitari e degli intellettuali della diocesi. 
A Roma spese le inesauribili riserve del suo cuore e della sua cultura come collaboratore per diciotto anni della Radio Vaticana e come fondatore dell’Istituto del Dramma sacro. 

Definito da Pio XII° “penna d’oro”, usò di questo suo talento come redattore di “Ecclesia Mater” e di “Mater Ecclesiae”, collaboratore di “Tabor”, autore di libri e di versi. 
Nonostante il suo impegno con la Radio Vaticana, le numerose missioni svolte, per lo più all’estero, per conto della Santa Sede, le varie commissioni vaticane di studio e di approfondimento storico nelle quali fu inserito, l’ impegno nella scuola quale insegnante, l’attività di redattore di più riviste e di scrittore mai volle lasciare la sua diletta parrocchia di “Santa Parasceve” in Sezze, dedicandosi sempre con zelo, umanità,fede profonda e trasparente alla cura religiosa, spirituale e civile dei suoi parrocchiani, la maggioranza dei quali era composta da semplici ed umili contadini con i quali aveva un dialogo continuo, fatto di parole semplici e comprensibili a tutti, non meno che di opere di autentica carità.

Don Titta riusciva a farsi capire da tutti in quanto aveva il dono della semplicità, il dono 
cioè di rendere accessibile anche ai più umili i principi, apparentemente più difficili, della dottrina cristiana. Celebri per comprensibilità e per concettosa brevità (massimo dieci minuti) sono le sue omelie domenicali. 
Egli è stato il prete del sorriso, di quel sorriso dispensatore di serenità, in quanto frutto di una raggiunta e completa serenità interiore, che derivava da quella fede che solo le anime elette possono raggiungere. La sua anima era tersa come un cristallo e perciò capace di trasmettere a chi lo avvicinava,anche per una sola volta, una letizia liberatrice. 

Carla Proia, alunna di quinta elementare, volle ricordarlo componendo la poesia che mi piace qui riportare, perché dimostra come i bambini sappiano riconoscere sempre il vero amore e la vera essenza di chi è loro vicino.

IL PARROCO DEL SORRISO
E’ morto il parroco del sorriso, 
lasciando il dolore in ogni viso. 
Amava ogni bambino come un fiore 
e lo curava con immenso amore. 
Or nella tomba la sua bocca tace, 
però ha sempre per tutti parole di pace. 
E’ morto mettendo una spina di dolore in ogni cuore. 
Egli ospitava tutti coloro che non avevano amore. 
E negli anni che è vissuto non si è mai lagnato. 
La sua notte non era mai nera. 
Diceva che nel regno dei cieli non entrerà la tristezza, 
e rideva facendo ad ogni bimbo una carezza. 
Nella sua tomba le sue mani,sono rigide e fredde e non scrivono più conferenze. 
Or nella sua chiesa, i bimbi non sembrano più fiori 
ma sembrano angeli sui cui visi è scolpito un ricordo di dolore 
che è rimasto eterno nei loro cuori. 
Anche se i suoi occhi non brillano più, 
il suo ricordo è sempre qua giù, 
nel cuore e nella mente di tutti. 
Don Titta è vivo e palpita ancora di più. 


La sua azione, però, non fu circoscritta all’ambito della sua parrocchia ma si rivolse a tutti i suoi concittadini, credenti e non, per i quali rappresentava un punto di riferimento sicuro e autorevole. La sua predilezione andava agli ultimi, ai giovani, ai bambini, ai moribondi. Incoraggiò e favorì le attività culturali. La sua casa era sempre aperta a tutti, ma la sua gioia più grande era quando riceveva i giovani, con i quali si intratteneva per ore e ore, spesso dimenticando, nonostante i solleciti della sorella, il pranzo o la cena. 
Credo,pertanto, che Don Titta abbia incarnato il Sacerdote portatore di luce, vissuta nella purezza, donata nella parola, elargita nella dolcezza del perdono, effusa nell’operosità del lavoro, offerta al padre nel sacrificio. 

Il suo motto era: “Nox mea obscurum non habet”, la mia notte non ha oscurità. 
L’Arcivescovo Arrigo Pintonello, durante i funerali affermò, fra l’altro: 
<<… il nostro amatissimo don Titta Zarra non è più! Un incidente mortale l’ha improvvisamente strappato al nostro affetto. 
… Ogni umana considerazione, è impari a ridare pace ai nostri cuori. Non riusciamo a rassegnarci alla tremenda ed irreparabile realtà. 
Scrittore e poliglotta,egli conobbe la letteratura, la storia, la teologia, la scrittura e la patristica come pochi; saggista e artista nato, … 
… Amato dai suoi confratelli nella fede e nel sacerdozio, era parimenti ammirato e desiderato da coloro che la fede non avevano e la fede cercavano. Pure dotato di una intelligenza versatile che lo portò a spaziare in tutti i campi umanistico – letterario, egli amò sempre proclamarsi e dichiararsi, prima di tutto, sacerdote e parroco, il “dispensator mysteriorum Dei”. 
E il dispensatore dei divini misteri, l’intermediario fra il cielo e la terra Egli fu per 23 anni ininterrotti, nella parrocchia di S. Parasceve. 
… Dall’alto dei cieli egli continui ad esserci ognora al fianco, coll’assisterci e col confortarci nella quotidiana apostolica fatica. L’esempio delle sue virtù, del suo infaticato zelo per le anime e della sua fortezza nella fede ci sia di monito e sostegno nell’arduo cammino di ogni giorno. 
“Euge, serve bone et fidelis, intra in gaudium Domini tui >>. 


Il prof. Luigi Gedda, amico fraterno di Don Titta , aggiungeva a nome dei laici: 
<<… La solitudine che in queste giornate è piombata su di noi, può essere soltanto rimossa da un sentimento di dovere: quello di rendere testimonianza della tua vita in queste mura solenni della Cattedrale di Sezze che per tanti secoli furono e sono la casa di Dio, di rendere testimonianza di fronte a Lui della tua vita. 
Era come un destino quello che si preparava davanti a te quando nascesti nel giorno di Pasqua del 1917.Il mondo era sconvolto da una guerra e tu nascevi nel giorno del Risorto, Principe della Pace, in una terra nella quale forse più di ogni altra,il trapasso da una novità alla successiva doveva essere marcato,dalla bonifica delle paludi, dalla trasformazione del lavoro, dalla nascita di nuove città, e dalla riorganizzazione della vita ecclesiastica.
In questo mondo che così velocemente cambiò, hai saputo portare lo spirito evangelico di Cristo,con la tua mente penetrante ed agile. 
Tu hai fondato e diretto riviste come quelle delle Figlie della Chiesa “Ecclesia Mater”, “Mater Ecclesiae”; hai scritto libri e hai collaborato assiduamente alla rivista “Tabor”, e ovunque hai portato la luce della tua intelligenza, l’annuncio della verità di Cristo. Nel tempo stesso tu hai evangelizzato con una sensibilità estremamente vivida che sapeva cogliere i sentieri dell’arte e farli convergere verso Iddio. 
Ancora, tu seguivi nella vita dell’uomo quell’età particolarmente piena di sogni, l’età dell’infanzia: amando i bambini come pochi altri sanno amarli, come Gesù li ha amati. … Con la medesima intuizione apostolica hai dedicato il tuo lavoro alle onde che vanno per l’aere e seminano le parole dell’uomo moderno, collaborando alla Radio Vaticana con una presenza continua, sacrificata, estremamente feconda. Intelligenza,sensibilità, generosità, il tuo cuore era aperto e sconfinato come un mare, aperto a tutti, ma specialmente a tre categorie di persone che portavi in modo particolare nel tuo cuore: i moribondi, i lontani, ed i perseguitati. 
Il primo dovere nella tua giornata, era quello di assistere i cristiani prossimi al transito. … 
Per i lontani avevi arti apostoliche, sconvolgenti, ricche di vittorie. … 
Ed ancora i perseguitati. Tu sapevi scoprire nella folla quelli che erano gli incompresi in alto, in basso, e ovunque vi fosse un cuore che doveva essere confortato. … 
Ed è di questo tuo insegnamento portato al cristiano di oggi, perché sappia con l’intelligenza, la sensibilità, e la generosità dare il Cristo al mondo della tecnica, che noi siamo qui a ringraziarti, o don Titta. … “Nox mea obscurum non habet”, la mia notte non ha oscurità. Tu lo dicevi a noi, per darci la sensazione che il tuo spirito andava al di là del dolore e giungeva sempre alla luce e alla gloria, alla pace e alla gioia di Dio. Quante volte ci hai confortato nei nostri dolori, dicendo che la tua notte non aveva oscurità! 

E mi sembra che questo lo dici a quanti siamo qui atterriti per la tua scomparsa subitanea; tu sembri dircelo sorridendo, come sapevi fare e come spiritualmente fai anche in questo momento, rivolgendoti a ciascuno di noi: “non è un’oscurità la mia morte. … Non è vero, forse, che in un giorno in cui la Chiesa annuncia 35 nuovi cardinali, proprio in quel giorno, a me don Titta è stata data una porpora di sangue, a confessare davanti a Dio e al mondo il mistero del mio sacerdozio?”. … >>. 

Pochi giorni prima della sua improvvisa e tragica scomparsa don Titta scrisse per la rivista “Ecclesia Mater” (2/1969 – pp.gg.119 – 121) l’articolo “L’Ascensione preludio al fuoco” dal quale stralcio: 
<<… l’Ascensione è il segno glorioso della liberazione ed il pesore umano scompare per seguire in volo Iddio. Da questa umanità che è stata trafitta per espiare, per riconquistare l’amore, dal Divino Martire pioverà sulla terra il fuoco dello Spirito Santo. Con Cristo che sale piove sulla terra la Grazia. 
Da quale prigionia ci liberò il Cristo? Da quella che ci incatena alla terra e ci nega il cielo, da quella che toglie il sorriso dall’anima, da quella che ha fatto della terra, e solo della terra, nido di interesse e di gloria. 
Ci libera dalla schiavitù della superbia che fece crollare Adamo. L’Ascensione ci riporta al respiro dell’umiltà, quella che fece cantare alla Vergine il Magnificat. 
L’ Ascensione rianimò la terra. …
Ma l’Ascensione non è solo il prodigio storico che prova la divinità del Cristo, la sua onnipotenza. Essa rivela imminente l’Amore. … 
D’all’alto, sulla nube, Lui, a guidare la grande conquista. E’ Lui che ha dato sapore alla vita e ci fa suoi amici, cooperatori: peccatori per la sua Grazia, sono strumenti di salvezza. 
L’uomo non è più arido: è vivo, può guardare Iddio … >>. 

Da un altro scritto di don Titta “La femminilità nell’apostolato” (Mater Ecclesiae – 2/1967 – PP.GG.86 – 93) leggiamo:  

<<… C’è una parola oggi che è di moda ma di cui – pare – si abusa. Questa parola è Libertà. 
Non sto a rifarmi a Tommaso d’Aquino, l’unico filosofo cristiano che ha capito la libertà. Ci rifacciamo ai profeti. Chi erano i profeti? 
Persone che dicevano sì al Signore, perché non schiavi di nulla. Ed erano gli unici ad annunziare la volontà del Signore e il suo amore, dalle delicatezze di un fiore e dal furore di una tempesta.
Vogliamo dire che la missione di una donna nell’apostolato avrà vitalità sorprendente se la donna è libera, cioè non legata da calcoli particolaristici, se la donna è libera come nel momento di Giuditta, di Debora, di Ester, di lei, la Madre Vergine. Le serve di Dio come lo fu Geremia. Serve , perché totalmente di Dio e non schiave, perché liberamente scelsero e furono prese da Dio.
Libertà che va insieme con il vigore. Bisogna capire l’amore di Dio. Non è un amore sentimento, è un amore – volontà. … Quando parliamo di libertà e di vigore, intendiamo parlare di quel tirocinio che distacca talmente l’anima dalle cose terrene e dalle passioni tipiche della femminilità, che rende l’anima agilissima alle chiamate del Signore. 
Da questo distacco – e grande maestro in quest’arte è Dio, basta saperlo ascoltare – nascono i principi, le spinte all’apostolato, … E, secondo i tempi, questa femminilità santa ha lavorato, spinta da compassione, che è cosa più alta dell’amore, perché è immediata immolazione. … La fede è un tesoro inesauribile: a mano a mano che si segue Gesù, il misterioso il tesoro si apre, si spalanca, rivela luci sempre più abbaglianti: la fede è fatta così: come una nube che ci precede, simile a quella donata da Dio agli ebrei dell’Esodo. … E si cammina dietro questa fede, tenacemente fino alla meta, in una perfezione progressiva, continua. … La femminilità è principio di raccordo e di vigore, … Se la donna vive questa missione, con la libertà a cui abbiamo accennato, il mondo sarà presto ripreso da Dio. … la donna può, come nessuna forza sulla terra. Questa forza per sua natura è elevante. … Sa infatti incitare, correggere senza spezzare la carità, donare senza far pesare, sa far vedere come si marcia verso Iddio senza appesantimenti di contorno … sa suggerire la preghiera. Sa morire, come le martiri. >>. 

Cornelio Fabro su “Mater Ecclesiae” (2/69 – PP.GG. 106 – 128), ad un mese dalla scomparsa di don Titta, così lo ricorda:  

<<… Artista, poeta, saggista, agiografo, drammaturgo, teologo di sicuro polso, don Titta, è stato soprattutto parroco, cioè pastore e direttore di anime: lo scintillio delle immagini, il fascino del ritmo, l’ardimento dei pensieri … corrono in lui verso il golfo misterioso del dolore e dell’amore per la luce ed il conforto delle anime, soprattutto di quelle anime scosse dal dubbio e travolte dal peccato. Una “theologia vitae” che è “theologia mentis et cordis” perché “theologia crucis” la sua, senza ghirigori e tutta impeto di spirito evangelico. Aveva perciò orrore di ogni esibizione personale ed i pochi scritti che ha dato alla luce volevano solo orientare ed accendere una fiamma di bene e di speranza …>>. 

Credo che il segreto della spiritualità di don Titta sia il tema del dolore, del dolore che redime nell’amore secondo quella che è la “Via Regia Sanctae Crucis”, in quanto egli, come l’Apostolo, vede tutto in Cristo Crocifisso. 

<<… Non te la senti di amare così, scriveva il 26 ottobre 1955, Guarda che è l’unica maniera di amare, perché così si espia soltanto, non c’è altro metodo e altro mezzo, segretamente per l’umanità tua e degli altri. Dì come me … le parole ultime. Vincerai perché risorgerai e trascinerai anime dietro a te. E’ un ragionamento base che sembra sconvolgere la logica,ma che è l’unico, dato che tu sei il mio sacerdote. Se guardi però a fondo nella mia imitazione ci trovi la pienezza della ragione. Tu devi come me salire sulla Croce e devi spargere il tuo sangue con me e per me. Non lo predissi agli apostoli? Lo predico anche a te>>. 

Mi piace chiudere questo ricordo di don Titta, che il Signore mi ha concesso la grazia di conoscere e di frequentare assiduamente negli anni delicati della mia formazione, con le parole con le quali Cornelio Fabro chiude il suo commosso ricordo su “Mater Ecclesiae”: 

<<La predizione, caro indimenticabile don Titta, si è avverrata alla lettera un mese fa tra il costernato dolore di noi tutti. Hai versato il sangue sull’afalto, sulla via che conobbe un quarto di secolo del tuo apostolato. Avevi scelto come motto “mea nox obscurum non habet” e nelle tue note leggiamo questa tua idea cardine che ci sgomenta e insieme ci allegra il cuore: “Conosco – scrivevi – dei sacerdoti che fin dall’ingresso nella loro parrocchia non ebbero se non tribolazioni e noie, incomprensioni, disprezzo anche da parte dei superiori. Ebbene, questi umili sacerdoti hanno edificato chiese non solo materialmente ma anche spiritualmente. Tutto sta a vedere me con te. Non temere: per quando il demonio si scateni con calunnie, con accuse anche violentissime non ti potrà torcere un capello”. Così colmo di questi pensieri dell’amore che è forte più della morte, il nostro fratello in Cristo, don Giovanni Battista Zarra, parroco di Santa Parasceve in Sezze, ha compiuto il suo martirio reclinando il sabato di Passione il suo capo schiantato e inporporato di sangue per amore delle anime>>. 

Lidano Serra  
P. S.: lessi della morte di don Titta sul “Corriere della Sera” mentre ero a Monza a casa dell’allora fidanzata, oggi mia moglie, rimasi per circa 15 minuti inebetito e senza poter profferire parola alcuna. Al dolore della perdita del mio maestro migliore si aggiunse anche quello di non potergli dare l’ultimo saluto. La parrocchia di Santa Parasceve venne affidata a Don Antonio Tassi e alla morte di quest’ultimo, avvenuta il 13 settembre 1985, venne definitivamente chiusa. Oggi versa nel più totale abbandono e se non verranno presi urgenti provvedimenti tra pochi anni non resteranno che pochi ruderi. Mi auguro che tra l’amministrazione comunale, la curia vescovile e la sovraintendenza ai beni culturali venga trovato un accordo per salvare una delle più antiche chiese di Sezze, che sorge su una preesistente costruzione romana.

29 marzo 2002 - giorno di venerdì santo                                                                  piazza Margherita

A 33 anni dalla sua scomparsa, Sezze scopre una targa e intitola a don Titta Zarra il palazzo della cultura in piazza Margherita

NOTA  BIOGRAFICA

Nato a Sezze l'8 aprile del 1917, (giorno di Pasqua) Giovan Battista Zarra è ordinato sacerdote il 23 giugno 1940 ed è parroco di Santa Parasceve in Sezze a partire dal lo aprile del 1946 fino alla morte, avvenuta il 29 marzo 1969 sulla via Appia, all'incrocio con la SS. 156 per incidente stradale. La sua vena di scrittore teatrale si manifesta in maniera compiuta nel 1947, all'età di trent'anni, quando, nel giro di sei o sette mesi scrive quattro drammi: Narciso, Dio è amore, Le pale del molino e Giobbe.  

Questa attività di scrittore, per quanto nessuno di questi primi quattro drammi sia stato pubblicato, lo mette in contatto col mondo teatrale professionistico, in particolare con l'attore e accademico Carlo Tamberlani e suo fratello Ferdinando, regista teatrale che aveva fondato, nel 1945 ad Assisi, l'Istituto del Dramma Sacro. Di questo istituto don Titta diviene membro della Presidenza come consulente religioso e per esso, con Ferdinando Tamberlani, riscrive Il miracolo del corporale  nel 1950, una sacra rappresentazione dei XIV secolo che viene portata in scena numerose volte dopo la prima di Orvieto, sul sagrato del Duomo

a cura di Giancarlo Loffarelli 

La decisione del Comune di Sezze di intitolare il Palazzo della Cultura a don Titta Zarra è un atto che rende finalmente omaggio ad un uomo e ad un sacerdote che alla cultura ha dedicato tutta la sua vita. A molti, soprattutto giovani, potrà sembrare incredibile che le personalità più prestigiose del teatro italiano degli anni Cinquanta abbiano interpretato testi di don Titta Zarra o che Radio Vaticana trasmettesse quotidianamente testi di vario argomento scritti da lui; oppure che papa Pio XII lo definisse "la penna d'oro" o, ancora, che don Titta potesse intraprendere relazioni epistolari con i più grandi intellettuali italiani del momento.

Tutto questo, e ben altro, fu e fece don Titta Zarra, una delle personalità più illustri di Sezze, di cui i setini vanno giustamente orgogliosi.

La nota biografica e la premessa sono tratte 

dal libro di Giancarlo Loffarelli  

"La scrittura teatrale di don Titta Zarra

pubblicato dal Consorzio delle biblioteche 

dei monti Lepini nel 1992

 

Nella foto il vescovo Giuseppe Petrocchi 

in compagnia di Giancarlo Loffarelli

 

Con la Presidenza dell'Istituto del Dramma Sacro fu ricevuto da Pio MI il 18 febbraio del 1956, da quello stesso Pontefice che lo avrebbe definito "penna d'oro", per la sua intensa collaborazione con la Radio Vaticana.

Con la Radio Vaticana don Titta comincia a collaborare ai primi anni '50 e tale collaborazione durerà fino alla morte. Sono quasi vent'anni di attività intensissima: più di trenta fra radioscene e radiodrammi scritti e trasmessi dall'emittente vaticana; nel 1956 scrive delle conversazione radiofoniche dal titolo Il libro rosso, esperienza che ripete l'anno successivo con Il libro rosso della Chiesa perseguitata (15 conversazioni radiofoniche sui martiri per due voci recitanti e musica); le Elevazioni bibliche (commenti alla Sacra Scrittura) nel 1956, 1958 e 1960; sempre sulla vita dei martiri scrive, nel '58, Sanguis martyrum; Milizia di Dio nel 1959 e 1960; i Pensieri della sera, brevi pensieri edificanti; ininterrottamente dal 1961 fino alla morte scrive le Xilografie, recensioni radiofoniche di libri di varia natura; ed una sterminata quantità di Elevazioni domenicali, di pensieri per il Mese del Sacro Cuore, Umanità dei Santi, Elevazioni Radio-quaresima, Dialoghi della fede.  

Alcuni momenti della cerimonia del 29 marzo a cui hanno partecipato: oltre alle autorità locali, numerosi concittadini, i parenti di don Titta Zarra, il vescovo Petrocchi, don Renato Di Veroli, l'avvocato Antonio Campoli in qualità di presidente del centro studi "don Titta Zarra" e l'autore della targa Cherubini.          (foto della cerimonia di Carlo Luigi Abbenda)

Durante questo lungo periodo continua la sua attività di scrittore anche fuori della Radio Vaticana. Nel 1953 pubblica il suo primo libro, un saggio su S. Lidanopíoniere della bonifica pontina e lo studio svolto sul Santo benedettino costituirà la base per la pubblicazione del romanzo Il saío e la bestia nel 1961.

Capita qualche volta: la produzione di don Titta che appare cosi disordinata nei temi (per cui, ad esempio, in uno stesso periodo egli lavora a più cose di argomento totalmente diverso) si focalizza, in dei periodi, su qualche argomento che, evidentemente, gli sta particolarmente a cuore. E' così con S. Lidano; è cosi pure per Lutero, su cui egli scrive il dramma omonimo nel 1968 ed attorno al quale stava lavorando da tempo, poiché nel n. 2 della rivista "Mater Ecclesiae" dell'aprile‑giugno 1969, appena qualche mese dopo la sua morte appare il breve brano di un articolo che don Titta stava scrivendo per quella rivista e che la morte improvvisa interruppe: Il mistero del male nella decadenza interiore di Lutero.

Il riferimento a "Mater-Ecclesiae" ci permette di aprire il discorso sulla collaborazione alle riviste. A questa rivista ed a quella "gemella" "Ecclesia Mater'' edite da "Cor Unum" Figlie della Chiesa, don Titta collabora a partire dai primi anni '60 con numerosissimi articoli e saggi. Si tratta, oggi, forse di riviste poco note ai più ma che contavano firme prestigiosissime, come Pietro Prini e Comelio Fabro.

Collabora intensamente anche a "Tabor", la rivista diretta da Luigi Gedda, dal 1961 fino alla morte. E' una collaborazione che spazia sui più svariati campi, ma che, a tratti si concentra, caparbiamente, su qualche tema specifico. Si pensi, ad esempio, che per tutto il 1962 appaiono sulla rivista otto articoli di don Titta sul tema degli angeli: dalle figure angeliche nella Sacra Scrittura agli angeli nella Divina Commedia. Il che dimostra la straordinaria abilità analitica di don Titta, oltreché la sua notissima abilità di sintesi.

Per il breve periodo che durò, collabora anche con la rivista teatrale "Il fuoco", insieme a due suoi grandi amici: Bonaventura Tecchi e l'ex rabbino, poi convertito al cristianesimo, e docente universitario Eugenio Zolli.  

L'intensa attività intellettuale non‑ ha mai impedito a don Titta di vivere appieno la vita sacerdotale e spirituale in genere che, anzi, sono state uno degli alimenti più importanti di quella. Di ciò è testimonianza una vastissima produzione di appunti, diari, note per esercizi spirituali. Ed è altresì testimonianza la quotidianità della vita di parroco, l'assistenza spirituale alla FUCI di Sezze, al Circolo Culturale "Corradini", al "Cenacolo" fra gli artisti a Latina.

Una vita, dunque, intellettuale, spirituale ed umana, tanto diffusa in molteplici attività così diverse ma unificate da un medesimo spirito, quello, possiamo dire, espresso dai due motti che don Titta usava ripetere ed appuntare sul frontespizio delle sue opere, a penna: ''Mea nox obscurum non habet" (la mia notte non ha oscurità) e quello di santa Giovanna D'Arco: 'l'irai... dussé‑je user mes jambes jusqu'aux genoux" (andrò avanti... dovessi consumare le mie gambe fino alle ginocchia).

Dopo la sua morte, numerosissimi articoli cercano di far conoscere o ricordare, su giornali e riviste, la vita e la produzione di questo prete scrittore. Il padre Cornelio Fabro, uno dei massimi filosofi e storici della filosofia cerca di ricostruirne, a più riprese, l'avventura spirituale ed intellettuale in numerosi saggi.

Fra i tanti articoli, piace ricordare, su "Il borghese" dei 19 giugno 1969 (a pagina 398) quello di Giuseppe Prezzolini, con il quale don Titta aveva iniziato un amichevole carteggio, per quanto i due non si fossero mai incontrati. Dovevano completare la loro amicizia appena iniziata con una visita di Prezzolini a Sezze, quando don Titta fu sottratto fisicamente ai familiari, ai parrocchiani, a Sezze, alla cultura italiana. Il laicista ed anticlericale Prezzolini salutava così quello che egli stesso definiva un "amico mai conosciuto».

"( .. ) figure di angeli affini e serene

guardano giù dalla volta; e che

momento felice sarà, quando un

giorno si ridesteranno insieme!"

(j.W. Goethe, Die Wahlverwandtschaften)

Nella foto don Titta Zarra viene 

ricevuto da Paolo VI

PREMESSA

tratta da  "La scrittura teatrale di don Titta Zarra"

Quando Don Titta Zarra scomparve avevo otto anni. E tutto ciò che posso ricordare è la folla, composta per lo più da misteriosi forestieri, che sfilò dietro il carro funebre lungo il percorso abituale di ogni funerale, nel nostro paese.

Stando così i rapporti biografici, il mio primo contatto con don Titta fu di tipo intellettuale, quando, per la prima volta, mi capitò fra le mani una sua opera. Si trattava di Pellegrinaggi umani, una raccolta di brevi racconti ispirati a fatti di cronaca della vita parrocchiale ed a fatti della cronaca più grande, quella di cui egli aveva notizia dal giornale o dai giornaleradio.

Aprii quel libro dalla copertina chiara con l'immagine di un uomo che passeggia tra alberi spogli, nella certezza di trovarvi il linguaggio comune a tanta letteratura provinciale, d'ambiente cattolico e non, quel linguaggio che cerca di ostentarsi colto attraverso il periodare lungo e complesso, attraverso l'uso di termini aulici e strutture sintattiche fuori moda: il tutto per esprimere contenuti melensi e noiosi, adatti più agli spiriti meticolosi che cercano negli interstizi della vita passata di cose e persone, che alla soddisfazione del desiderio di svago intellettuale.

Bastò la lettura di un paio di righe della prima pagina per rovesciare totalmente quel mio pregiudizio. L'effetto fu devastante: mi trovavo di fronte a qualcosa che non aveva niente a che fare con la provincia, la sagrestia, le atmosfere crepuscolari o cose del genere.

Non andai avanti nella lettura. Evidentemente ciò che avevo scoperto, o intuito di scoprire, era così sconvolgente che, forse per non voler ammettere d'essermi sbagliato, non proseguii nella lettura.

Quell'impressione però, cosi subitanea e sfuggente, mi accompagnò per molto tempo. Me ne rendevo conto quando, avvicinandomi ad intellettuali che avevano dato molto al teatro, al cinema, alla narrativa, ma che erano stati valorizzati tardi, per lo più postumi, mi tornava puntualmente davanti la figura dimenticata di don Titta.

La conferma che quella immediatamente successiva al primo contatto con Pellegrinaggi umani non era stata un'intuizione dettata dal desiderio di trovare in don Titta ciò che io volevo trovarvi, la ebbi quando potei prender visione ed analizzare con calma le sue opere, ed in particolare quelle dedicate al teatro. Scoprii allora che Sezze aveva dato i natali ad un uomo che non può che essere, e dunque deve essere collocato fra i drammaturghi notevoli dei secondo dopoguerra. Sia nelle idee, sia nella forma che egli cerca di dare a queste idee, cogliamo infatti una sensibilità alle problematiche più intime della persona, intesa sia nella sua dimensione privata che in quella pubblica; e cogliamo pure una capacità di padroneggiare lo strumento teatrale che, a volte innestandosi nel tronco della tradizione, altre volte echeggiando atmosfere da avanguardia, riesce a coinvolgere il pubblico senza nulla svendere ai fini del plauso.  

Giovan Battista Giorgi con il vescovo Petrocchi e don Renato Di Veroli

Un'analisi attenta della sua attività di drammaturgo, illuminata anche dal suo impegno di animatore del mondo teatrale, come assistente dell'Istituto del Dramma Sacro e come collaboratore della Radio Vaticana, ci conduce alla scoperta di un mondo ricco di umanità, aperto alle diversità culturali, attento a mai separare il teatro dalla vita, l'attività di scrittore a quella di sacerdote. Col rimpianto di non aver potuto godere ulteriormente della sua vena artistica, causa la prematura scomparsa, resta anche il rimpianto di non poter conoscere tutta la sua produzione. li carattere di don Titta, infatti, la sua stessa coscienza della funzione dell'arte, lo spinsero ad un totale disinteresse  per la conservazione ai fini della fruizione dei posteri. Ecco dunque che, accanto ad opere compiute, troviamo tante pagine sparse, tracce di idee abbozzate e poi sospese o forse divenute opera, ma poi finite tra la carta straccia.

Se questo aspetto lascia al ricercatore un, senso di frustrazione, al tempo stesso, all'amante del teatro comunica un sentimento più complesso, fatto per metà di rimpianto pianto per non poter godere di tutta l'opera, ma per metà pure di piacere nel sapere che, proprio quelle pagine ingiallite di carta già usata e riutilizzata sul retro, vergate magari solo per metà, raccontano la storia di un uomo che non decide di essere scrittore e intellettuale, ma che vuole essere curatore d'anime ed è, nel contempo, trascinato misteriosamente a scrivere.  

Non vi è, dunque, certamente in don Titta il vezzo del letterato che, credendo di essere Dante, cura minuziosamente l'immagine di sé attraverso la conservazione meticolosa dei suoi scritti, anche quelli più insignificanti. Al contrario, vi è l'uomo, soprattutto di teatro, che se scrive è perché ha un urgente bisogno di render cosa reale i fantasmi che gli si muovono dentro ed ha davanti soltanto l'effetto che ciò dovrà produrre in chi ascolterà la trasmissione alla radio o vedrà lo spettacolo teatrale.

E non si può non guardare con simpatia a questo atteggiamento intellettuale, nella certezza che nessuna conservazione meticolosa può legittimare il valore di un autore; mentre viceversa, laddove un qualche valore esiste, anche a distanza di secoli, riuscirà ad affermarsi, dovesse pure farsi strada solo attraverso frammenti.

L'augurio sincero è che, se questo lavoro potrà contribuire, anche solo minimamente, a far conoscere don Titta drammaturgo, altri lavori possano, un giorno, far conoscere il don Titta poeta, romanziere, saggista, scrittore ascetico e pastore d'anime.

Un ringraziamento sentito a quanti mi hanno incoraggiato in questo non facile lavoro; alla famiglia di don Titta che fece dono delle sue opere alla Curia di Latina; a Sua Eccellenza Monsignor Pecile che mi diede l'opportunità di prenderne visione e studiarle; a don Nicola Loiudice, amico fraterno di don Titta, che le riordinò; al professor Luigi Zaccheo che mi ha dato la possibilità di pubblicare quest'opera; alla dottoressa Maria Cherchi che con squisita gentilezza e profonda competenza mi ha offerto utilissimi suggerimenti.

Il libro "La scrittura teatrale di don Titta Zarra" si può richiedere presso la biblioteca comunale

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