ambiente & storia 

2021 - 2023

a cura di Vittorio Del Duca

Sezze, 21 ottobre 2023                                                          Museo Archeologico - ore 17,30

Presentazione del libro di Vittorio Del Duca

Un libro che racconta, oltre ai più recenti ritrovamenti delle orme dei dinosauri, una storia mellenaria di frequentazione umana in epoche preistoriche fino alle vestigia dell'antica Setia, ai prodotti della terra, oltre ad un percorso virtuale nelle strade e nei vicoli, tra le case e le botteghe del centro storico. 

Si conclude con l’arrivo di San Luca che evangelizza il paese e con  la ricostruzione del martirio della setina Santa Parasceve. In pratica, sono riportate nel libro i sentimenti e gran parte delle tappe del gruppo "In Difesa dei Beni Archeologici" che dal 2004 ad oggi ha perseguito l'ambizioso obiettivo della valorizzazione dei beni culturale, almeno per impedirne l’oblìo e il dilagare dell’indifferenza nei confronti di un vasto patrimonio di valori e verso l'identità di un territorio unico nel suo genere, quello della città di Sezze.


Sezze, 21 maggio 2022

Le sorgenti e le terme romane dell'Acquevive

Racconta il Venerabile Cardinal Corradini nel Vetus Latium Sacrum et Prophanum (anno 1734 Liber II, Caput XIX, pag.157 ) che ai suoi tempi furono rinvenuti presso le sorgenti dell’Acquaviva alcuni tubi di rame e altri resti che fecero pensare all’esistenza in loco di antiche terme romane, appartenute alla villa di Mecenate.

Sapendosi che una villa di Mecenate era nel pontino ed essendo noto che le ville di costui di solito erano accanto a quelle dell’imperatore, il Corradini colloca tale villa, che comprendeva nella sua estensione le sorgenti dell’Acquaviva, non lontano dagli avanzi del Palatium dell’imperatore Augusto.

A testimoniare la villa dell’imperatore Augusto nel setino restano lungo la vecchia S.S.156 alcuni ruderi del suo antico Palatium, chiamato oggi volgarmente Le Grotte e se è vero che la toponomastica è il luogo dove si conservano meglio i ricordi, tutta la fertile campagna prospiciente tali ruderi viene chiamata anche ora dalla tradizione popolare Quarto Palazzo, a memoria del maestoso palazzo dell’imperatore.

Che il Palatium sia la residenza di un imperatore non vi è dubbio alcuno, perché con tale termine i Romani intendevano solo ed esclusivamente la residenza dell’imperatore, mentre chiamavano le altre dimore  “domus” o “villae”, come ben descritto da Varrone, Vitruvio  e Columella.

Augusto aveva dunque edificato ai piedi del colle di Setia una delle sue residenze, in quanto il vino cecubo prodotto in questa parte del territorio setino gli avrebbe alleviato le sofferenze dello stomaco ( Vinum setinum Divus Augustus cunctis praetulit,.Plinio lib 14 cap 6 n°5.)

Giuseppe Ciammarucone, dottor di legge, nella sua Descrittione della ctità di Sezza , anno 1641, pag 63, ci ha lasciato una magnifico e dettagliato ricordo delle sorgenti dell’Acquaviva del suo tempo:

E acciò questo felice paese non avesse a desiderare cosa alcuna, produsse la Natura in mezzo della sua fertile campagna un limpidissimo fonte da noi detto Acquaviva, commodo e grato agli uomini e agli armenti, ristorato ultimamente d’ordine di Monsignor Coti, Governatore di Campagna; presso il quale si scorge picciola Chiesa di tavole, principio di grossa fabbrica in honore della Beatissima Vergine, che stando già dipinta sopra d’un pezzo di ruinosa conicella, si compiace di far mille gratie à noi mortali, come ben l’attestano li voti d’ogni intorno al sacro Tempio appesi; quindi poco discosto vedonsi alcune mura guaste, vestigio di loco abitato, ma di quelle non se n’è potuto hauere altra notitia, se non che si stima essere una delle Città della Palude Pontina.”

Accanto a queste sorgenti, fu costruito nel 1933, durante la bonifica idraulica delle paludi pontine, un magnifico fontanile con abbeveratoio, unico rimasto nel campo setino, grazie alle cure del sottoscritto per trovarsi prospiciente alla propria azienda agricola. In vicinanza del fontanile, a protezione dalla temibile zanzara anofele, portatrice della malaria, venne piantumato nello stesso anno un albero di eucaliptus che, con gli anni, è diventato un monumento naturale dalle proporzioni gigantesche, forse il più grande dell agro pontino.

Le sorgenti dell’Acquaviva disseccarono negli anni “50, in seguito all’indiscriminato scavo di pozzi per le mutate esigenze idriche dell’agricoltura, che scopriva la sua naturale vocazione alle nuove colture intensive di insalate e di vari ortaggi.

Resterà sempre vivo nei miei ricordi quando, da bambino, bevvi l’acqua limpida e fresca di queste sorgenti dalle mani mia madre. Imparai un modo di bere “alla campagnola”, ma allora le mie mani erano troppo piccole per riuscirci e mai avrei immaginato che da grande non avrei potuto più farlo. Non perché le sorgenti dell’Acquaviva erano sparite, ma perché l’uomo aveva iniziato a distruggere la grande bellezza del paradiso terrestre che il Signore ci aveva donato.


Sezze, 31 marzo 2022

Ricordando Toto

Esiste una categoria di persone che non dovrebbe morire mai e quando scompaiono ti resteranno sempre nel cuore. Possiamo perdere la loro presenza e la loro voce, ma ciò che hai imparato dagli insegnamenti e dai racconti che ti hanno lasciato, non lo perderemo mai e vivranno per sempre nei nostri pensieri e nei nostri ricordi.

Salvatore Santucci,  chiamato affettuosamente Toto, è stato tutto questo per quanti lo hanno conosciuto.

Nato a Sezze il 26 ottobre 1930 e scomparso il 1 gennaio di quest’anno all’età di 91 anni è stato l’ultimo rappresentante della categoria dei “bovari”,  come egli stesso amava definirsi, un mestiere appreso sin da bambino dal padre e dal nonno, antichi bovari della masseria  Pietrosanti - Boffi, presso le quali anche lui prestò attività lavorativa negli anni giovanili.

Profondo conoscitore delle tradizioni, degli usi e dei costumi della passata civiltà contadina, che ha vissuto sino al tramonto e che spesso confrontava con la nostra epoca, era prodigo di racconti a quanti ne manifestavano interesse.

È stato amico e collaboratore nella coltivazione dei carciofi della mia azienda, un “carcioffolaro” per eccellenza. Voglio ricordarlo con una sua narrazione che pubblicai nel 2019 in occasione della 50esima Sagra del Carciofo nel mio libro “Il Carciofo di Sezze - Usi, Costumi e Tradizioni”:

Si era nel mese di Aprile1942, la Pasqua era passata e cominciava a fare caldo. Ero stato con mio padre, Antonio, al mercato dei carciofi perché nell’osteria di ‘Mbertina, davanti il piazzale della Stazione, si vendevano oltre ai vini, le gassose e le aranciate che a me piacevano tanto e papà  mi aveva promesso di comprarmele.

 Avevo dodici anni – continua Salvatore - ero sempre stato un bambino terribile e allo stesso tempo curioso. Da piccolo scappavo spesso dall’asilo di via Annia, insieme ad altri bambini terribili, approfittando dell’attimo di distrazione delle suore. Ci mettevamo l’uno sulle spalle dell’altro in modo da poter  afferrare il catenaccio del portone, che avevano messo apposta in  alto per non farcelo prendere e scappavamo correndo all’impazzata.

Con noi scappavano pure i “mammòcci ntuntìchi[1]”. Li chiamavamo così perché dopo una brevissima corsa, giunti in piazza dei Leoni non sapevano più quello che dovevano fare e si facevano subito acciuffare dai Carabinieri, che avendo la caserma in piazza, li riportavano all’asilo a calci nel sedere.

Noi invece, figli di bovari, correvamo come pazzi per il paese, inseguivamo il camion di Meschini[2], un Fiat Biella[3] (Fiat BL18) carico di “sciuscelle”[4], le sfilavamo e ce le mangiavamo, andavamo fuori porta a fare le scampagnate a Suso e quando era la stagione andavamo “pe cerasa”[5] ci riportavamo le “uottacòle”[6] e ci veniva pure la cacarella.

Qualche volta siamo andati per le “coste”  a “scafe”[7] e pure a “carcioffoligni”[8]  e ritornavamo con le labbra tutte“ntente”[9]. Insomma sapevamo bene come trascorrere la giornata, eravamo figli di bovari, svegli, non ci facevamo certo prendere dai Carabinieri noi, ma sapevamo pure che la sera, a casa, ci aspettavano le mazzate dei nostri genitori e dei fratelli pù grandi. Per fortuna che io ero il più grande della famiglia, ma un mio amico che era il più piccolo di sette fratelli e quattro sorelle, potete immaginare quanti schiaffi e calci si prese, poverino!-

Così quel giorno di Aprile 1942, al mercato, fui incuriosito dagli autocarri dei commercianti di carciofi.

Erano simili a quelli che già conoscevo di Meschini e di Cirulli[10], ma le targhe erano diverse, provenivano da fuori provincia. Buona parte  di questi erano i Fiat Biella (BL 18), quelli usati dall’esercito italiano durante la prima guerra mondiale, avevano i cerchi di ferro e le ruote ripiene di gomma, senza camera d’aria, si mettevano in moto con la manovella in dotazione ed i fari si accendevano  con i prosperi[11].  La loro portata era di 50 quintali.

Incuriosito mi misi a leggere le province delle varie targhe, Milano, Pescara, Reggio Emilia, Firenze, Perugia, Roma, Forlì, ed alcuni erano targati LT; erano circa una quindicina di mezzi, oltre ad alcune Balilla trasformate in autocarro e provenienti dai Castelli Romani .

Una di queste Balilla, ricordo, apparteneva ad una signora di nome Marisa, veniva dai Castelli romani e tutti la salutavano con simpatia e rispetto facendole gli auguri; la ragione era, che oltre ad essere una donna molto bella e simpatica, ogni anno si presentava al mercato con il pancione di una nuova gravidanza, pertanto riceveva doppi auguri, sia per  l’ultimo nato che  per quello che doveva nascere. Aveva già sette figli e stava all’ottava gravidanza.

Quel giorno, avevo contato,  si stavano caricando 42 vagoni merci di  “Tuppitto. Siccome cominciava a fare caldo, per farli viaggiare freschi si faceva sul vagone una prima stipa di carciofi alta un metro, poi vi si ponevano sopra tre travature di ghiaccio e si continuava a riempire sino al soffitto.

Il ghiaccio lo faceva Eleonora Fanelli sopra a Sezze, erano blocchi di forma parallelepipeda, lunghi più di  un metro e con una sezione di circa cinquanta centimetri per cinquanta e anche più, erano pesanti e per scaricarli dal camion e posizionarli sui vagoni  occorreva la forza di due uomini.

In tempi più antichi i contadini portavano i carciofi al mercato  dentro grossi sacchi di iuta, erano già tutti contati, tanti a sacco e comprensivi della “conta” del 6%,  cioè ogni cento carciofi se ne regalavano sei all’acquirente, come da usanza.

Durante la conta in campagna, le  carciòffole[12] venivano prese  dal mucchio a  cinque a cinque, tre con una mano e due con l’altra, e si contava per ventuno volte, o come si diceva per “ventuno mani” (cioè 105 carciofi ), si metteva un carciòfo da parte a indicare il primo centinaio e si ricominciava daccapo, da uno sino a ventuno più il carciofo da parte come conta e così per più volte sino ad esaurimento del mucchio. Il numero dei carciofi messi da parte, la cosiddetta “conta” ricordava quante centinaia di carciofi erano state contate.


[1] E’ una forma dialettale per indicare bambini poco vivaci

[2] La famiglia Meschini era titolare di un magazzino di generi alimentari ed era il principale rifornitore delle botteghe di generi alimentari e dei forni del luogo

[3] Fiat BL 18

[4] Forma dialettale per indicare le carrube, chiamate in loco anche pacche secche,

[5] Si andava a ciliege

[6]I ragazzi non disponendo di un recipiente per portare a casa le ciliegie ne facevano una composizione, detta in dialetto uottacòla, intrecciandole tra di loro attorno ad un ramoscello e gareggiando in abilità a chi riusciva a farla più grande. Non poche volte e diplomaticamente, si regalavano alle maestre per farsi perdonare l’ assenza dalla scuola.

[7] Fave fresche

[8] Carciofini

[9] I carciofini, mangiati crudi, in virtù dei loro contenuti di cinarina ed inulina, hanno il potere di tingere le labbra di un colore viola scuro.

[10] Amedeo Cirulli, prima di aprire a Sezze Scalo un negozio di prodotti e carburanti per l’agricoltura, aveva un’attività di trasporto merci, svolta con uno dei primi autocarri della Fiat, l’autocarro BL 18.

[11] Erano fari a carburo e si accendevano con i fiammiferi

[12] I carciofi


Sezze, 17 gennaio 2021

Traduciamo il Corradini

Nel Vetus Latium Profanum et Sacrum del 1705 al Tomus Secundus, 240 pagine e 23 capitoli, è descritta la storia antica di Sezze

Vita ed Opere del Cardinale Pietro Marcellino Corradini

Molto è stato scritto sul Cardinale Corradini, sulla sua vita e sulle opere, in particolare sull’Istituto della Sacra Famiglia da lui fondato. Nondimeno si è parlato del suo grande patrimonio di scritti a carattere giuridico ed archeologico che ci ha lasciato in eredità.

Questi libri furono scritti dal Corradini interamente in latino, lingua che oggi non viene più usata come mezzo di comunicazione e quindi appannaggio di pochi eruditi di civiltà classica.

Tra gli scritti del Corradini ho trovato assai interessante il Vetus Latium Profanum et Sacrum che scrisse nel 1705, particolarmente il Tomus Secundus, dove in 240 pagine e 23 capitoli è descritta la storia antica di Sezze.

È la seconda storia del nostro paese, dopo quella di 71 pagine, scritta nel 1641 da Giuseppe Ciammarucone dottor di legge e zio di Porzia Ciammarucone, madre del Corradini, ovvero Descrittione della Città di Sezza Colonia Latina di Romani.

Il testo del Vetus Latium Profanum et Sacrum fu inserito dal Corradini nel 1718 anche nella sua opera più vasta De Primis Antiqui Latii Populis, nel secondo dei dieci tomi di cui è composta (Setina et Circejensis Historia) senza alcuna revisione.

Nel Vetus Latium Profanum et Sacrum il Cardinale, dopo un’introduttiva visuale panoramica sulle antiche memorie latine e romane, passa a descrivere analiticamente i monumenti della sua Sezze e del Circeo (liber tertium) corredati di alcune illustrazioni. È un lavoro di erudizione immenso, che consacrò l’autore principe degli archeologi del Lazio; una miniera di informazioni da cui hanno attinto tutti gli autori di storia locale e che rappresenta anche oggi un punto di riferimento per nuove ricerche sul territorio.

Io stesso, me ne sono avvalso per la ricerca sul cecubo, ma ho dovuto rispolverare le mie reminiscenze di latino, insieme al vecchio ed immortale vocabolario Angelini.

In tutta sincerità debbo riconoscere che per me, che non mi occupo di latino dai tempi della scuola, è stato un lavoro difficile e penso di non sbagliare se dico che lo sarà ancora di più, se non addirittura impossibile, alle nuove e future generazioni perché gran parte di loro non hanno fatto gli studi classici.

Da queste considerazioni sarebbe auspicabile per la nostra storia, che il Vetus Latium profanum et Sacrum, tomus secundus, venga tradotto in italiano da qualche nostro erudito e volenteroso concittadino o magari, perché no, dagli studenti del liceo classico Pacifici e De Magistris di Sezze, perché possa rappresentare e restare beneficio e patrimonio dell’intera comunità.

Riproduzione del Corradini dei Ruderi della villa di Mecenate e di Augusto in località Quarto Palazzo

a cura di Vittorio Del Duca