17
maggio
2014
a cura di Lidano Serra La
mietitura -
l'aia - la
trebbiatura -
il granaio

"L'arrivo dei mietitori nelle paludi
Pontine" è un'opera del pittore Léopold Robert che nel 1831 trionfò al Salon di
Parigi dove questa tela gli fece ottenere la croce della Légion d'honneur che gli venne consegnata dal re di Francia in persona.
La
mietitura
La mietitura e la trebbiatura, considerati lavori agricoli per eccellenza fino alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso oggi, con l’avvento della mietitrebbia, sono scomparsi e vengono rivissuti in alcune zone solo come un fatto folkloristico.
La letteratura e la pittura ci hanno tramandato una visione bucolica e romantica della mietitura, ma ciò non corrisponde alla verità in quanto essa era uno dei lavori più duri, della sempre durissima vita dei campi, per i contadini e per i braccianti agricoli che la effettuavano: essa veniva compiuta nelle condizioni peggiori perché alla durezza intrinseca si accoppiava il caldo estivo reso ancor più soffocante dal dover compiere un notevole sforzo stando curvi in mezzo al grano che non lasciava passare la leggera brezza che spesso, nei nostri campi inizia a spirare intorno alle 10,30 - 11 del mattino (non a caso i nostri contadini chiamavano < ‘ncalemata > - dal latino calere – sia la parte della mattinata che va dalle ore 9,30 – 10,30 fino alle 11 circa sia per indicare le ore più infuocate della mattinata prima che si alzi il venticello ristoratore che le ultime ore del pomeriggio quando prima del tramonto si blocca la brezza).
A tutto ciò andava aggiunto il pericolo di ferirsi seriamente ad una mano o ad una gamba “ cu gli suricchiu “ o “ cu gli suricchio” – versione più recente - ( con il falcetto ), cosa probabile quando il caldo e la fatica annebbiano la vista e appannano i riflessi. Ricordo che mio padre, come gran parte dei contadini, per difendere il più possibile le gambe nelle ore di lavoro indossava: mutande a bocchetta ( mutande lunghe allacciate alla caviglia ),di cotone d’ estate e di fustagno d’inverno (un esemplare è conservato nel museo della “ Civiltà Contadina “ a Sezze Scalo, mi permetto di fare questa segnalazione in ricordo e in omaggio alla maestria di zia Matilde Fattorini, madre del più grande cantore della nostra civiltà contadina il poeta in lingua sezzese avv. Antonio Campoli), calzoni a palloncino o alla cavallerizza di pelle di diavolo, stivaletti e gambali di cuoio. Quindicenne ho provato la mietitura solo per pochi giorni e, nonostante le frequenti pause che mi imponeva mio padre, ancora oggi mi sembra di rivivere la spossatezza totale che ho sentito durante quella settimana.
A volte, ripenso con nostalgia al mondo contadino, non perché lo rimpianga,ma solo perché mi ricorda la mia infanzia e la mia giovinezza, la serenità dei miei genitori e la loro fiducia nel futuro nonostante la vita dura che conducevano e i sacrifici che compivano. Come dimenticare che gran parte dei contadini invecchiava precocemente , che moltissimi iniziavano ad incurvarsi intorno ai cinquant’ anni e che nel giro di pochi anni camminavano piegati ad angolo retto?
Ricordo che l’inizio della mietitura era annunciata dal rientro anticipato di mio padre dai campi. Egli normalmente andava “ fore “, termine che nel Medio Evo stava ad indicare chi usciva fuori dalla cinta muraria della città e rimasto nei secoli ad indicare il lavoro agricolo, un’ora prima dell’alba e rientrava un’ora dopo il tramonto. Sistemato il mulo si lavava, si vestiva e si recava a piazza “ Dei Leoni “ dove fino agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso sostavano i braccianti agricoli in speranzosa attesa che qualche contadino li reclutasse “ a giornata “ per l’ indomani.
Una volta, ingaggiata la squadra dei mietitori, tornava a casa. Si cambiava e, mentre mia madre preparava da mangiare,scendeva in cantina: prendeva i’ “suricchiu e la “ bacchitora” (attrezzo composto da una piccola incudine quadrata che veniva conficcata nel terreno tra due selci e un martello a doppio cuneo), seduto sul gradino di casa batteva, cioè affilava, i’ suricchiu, finita questa operazione preparava il corno dove era la cote, la pietra con quale veniva ravvivato i’ suricchiu durante la mietitura e “ i’ portasuricchiu “, una specie di uncino, credo di ottone,che appeso alla cintura dei pantaloni serviva per riporre i’ suricchiu nelle operazioni della mietitura per le quali era necessario avere entrambe le mani libere. Risalito in cucina si lavava le mani e si sedeva a tavola per la cena con tutta la famiglia.
Dopo cena tagliava il prosciutto in una quantità più che sufficiente per due pasti per sé e per ogni mietitore ingaggiato e versava in un sacchetto di tela le olive; i contadini, non tutti per la verità, in ricompensa della maggiore fatica cui erano sottoposti i mietitori usavano offrire loro il companatico, normalmente mortadella e/o salame, mentre il prosciutto era una prelibatezza riservata a pochi. Alcuni mietitori ne mangiavano una modica quantità così che a fine giornata potessero dividere tra di loro quello rimasto e farne assaggiare qualche fetta ai familiari. Al termine di queste operazioni,che si ripetevano ogni giorno, escluso l’ ingaggio dei mietitori che restavano, salvo imprevisti, sempre gli stessi per tutto il periodo della mietitura, andava a letto. Per 15 – 20 giorni in tutta Sezze risuonava il ticchettio delle bacchitora e nei volti della gente c’ era un’ aria di felicità perché quelli erano giorni di lavoro per tutti e lavoro voleva dire pane assicurato per tutta la famiglia.
Il giorno dopo si alzava alle due e, vestitosi al buio e in silenzio per non svegliare la moglie e i figli, riempiva le “ uerte “, bisaccia di tela molto resistente ( con la stessa tela venivano cuciti, nella misura predeterminata, anche i sacchi per il trasporto dei tuteri ( pannocchie ) e che rappresentavano una unità di misura chiamata carico ), nelle quali riponeva le cibarie e, ricolma d’acqua fresca, la “ cupella “, barilotto dalla capacità variabile dai due ai dieci litri, attaccava il mulo al carretto e partiva.
Arrivava sul posto di lavoro che era ancora buio ( il tempo impiegato variava secondo la distanza del campo da un’ora a un’ora e mezza circa),staccava il mulo che legava dove c’era erba da mangiare, sistemava le uerte in un posto dove non sarebbe arrivato il sole e al primo chiarore dell’ aurora iniziava la mietitura. I braccianti arrivavano alla spicciolata in bicicletta e all’alba iniziavano il lavoro. Essi si disponevano uno accanto all’altro per la mietitura e ognuno portava avanti tre solchi. Per prima cosa tagliava tanti steli di grano quanti ne conteneva la mano e, riposto i’ suricchiu nel portasuricchiu, divideva a metà gli steli falciati e prendendo le due metà dalla parte delle spighe le avvolgeva ,le piegava e le poneva aperte a terra.
Aveva preparato i “ fauzo “ (legaccio) delle “gregne” (covoni). Le gregne venivano raggruppate con le spighe in alto in gruppi di cinque, detti “ muntugni o
cuvugni“così che seccassero ulteriormente. Si andava avanti così fino alle 7,30 – 8, ora in cui si consumava la colazione all’ombra del carretto, dopo un’oretta circa si riprendeva il duro lavoro. Si effettuava una ulteriore pausa pranzo poco prima di mezzogiorno e la mietitura riprendeva fino alle ore 14. In quei tempi nessuno possedeva l’ orologio e l’ ora veniva calcolata i base alla posizione del sole; i nostri contadini erano talmente bravi nel leggere l’ ora che il margine d’ errore difficilmente superava i dieci minuti.
Dopo una giornata di mietitura la fatica non era terminata in quanto per tornare a casa bisognava percorrere un bel po’ di chilometri, gli ultimi cinque di dura salita con il sole a picco in una delle ore più calde della giornata. I più fortunati, si fa per dire, sul carretto, tutti gli altri in bicicletta. Spesso i mietitori erano seguiti dalle spigolatrici, donne poverissime che raccoglievano le spighe spezzatesi durante la mietitura e rimaste sparse sul terreno, a volte le spigolatrici iniziavano la loro raccolta a mietitura finita. Queste povere donne, quasi sempre vedove accompagnate da figli e /o figlie bambini, erano costrette ad un duro lavoro la cui ricompensa era qualche “puiglio “ (dal latino pugillus, ciò che possono contenere due mani aperte) di grano giornaliero.
Alla fine degli anni cinquanta apparvero le prime mietitrici meccaniche che determinarono la fine della mietitura manuale. Venivano mietute a mano soltanto 5 - 6 solchi lungo il perimetro del campo per lasciare lo spazio al trattore cui era agganciata la mietitrice ,nacque così l’ espressione “ traccià le vie “. I braccianti agricoli vennero assorbiti dall’edilizia che era in forte espansione soprattutto a Roma. Iniziava il ‘ boom ‘ economico e l’ odissea dei pendolari che a migliaia invadevano la capitale, solo da Sezze erano oltre tremila, e l’occupazione principale diventò la “ giobba” (americanismo che deriva da job) e i braccianti agricoli si trasformarono in giobbarogli (operai che lavorano a giornata fuori dall’agricoltura).
L'aia
Prima di iniziare i lavori susseguenti alla mietitura il contadino portava “ i’ carretto a ristregne “ (a fare il tagliando per usare un termine improprio ma che rende l’ idea) da “ gli facocchio “ (costruttore e riparatore di carretti) in quanto era il periodo in cui i carretti erano sottoposti al maggior logorio. Anche il mulo riceveva una cura e una alimentazione particolari perché doveva sostenere grandi e prolungati sforzi. L’ alimentazione del mulo che normalmente era costituita da erba fresca e/o da fieno veniva integrata con la biada, la quale si versava nella “ mangorgia “ (sacchetto di iuta o di panno molto resistente ) che si applicava al muso del mulo. La mangorgia evitava la dispersione della biada e, nello stesso tempo, permetteva all’ animale di alimentarsi anche mentre tirava il carretto.
Occorre ricordare che la piccola proprietà contadina, che difficilmente superava i cinque ettari, era molto frazionata. Era composta, cioè, da diversi appezzamenti che potevano andare da ‘nu terzo (1200 metri quadri circa) a ‘nu rubbio (15.000 metri quadri circa). Ciò comportava ogni anno, secondo il principio della rotazione delle culture, modalità diverse per arrivare alla trebbiatura,sia in relazione alla vastità e alla quantità degli appezzamenti coltivati a grano sia al tempo più o meno lungo intercorrente tra la mietitura e la trebbiatura stessa. Altro fattore importantissimo era quello climatico, se tra la fine di giugno e la prima metà di luglio il tempo si presentava stabile i covoni venivano portati subito all’aia e si costruivano le biche, mentre se l’inizio dell’estate c’era instabilità atmosferica si costruivano le casole.
L’ agricoltura è sempre stata legata alle condizioni climatiche e pertanto il contadino, oltre ad aver imparato a leggere il tempo nell’ immediato, ad esempio se in piena estate si formava una nube su un picco dell’Antignana (monte Antoniano, dal triunviro romano Marco Antonio ) detta “ Capo di Bovo “ (Testa di Bue) arrivava un acquazzone estivo, aveva elaborato dei sistemi per prevedere che tempo ci sarebbe stato durante l’ anno o in un determinato periodo dell’ anno e, per quanto riguarda il periodo della raccolta del grano, la previsione veniva effettuata la domenica delle palme: << Palma assutta gregna nfossa, palma nfossa gregna assutta (palma asciutta covone bagnato, palma bagnata covone asciutto) >>.
In attesa di decidere dove fare la “meta” (plurale mechi), termine che sta ad indicare sia l’ aia che la bica, si facevano le “casole” ( mucchi di grano di forma rettangolare composti da una cinquantina di covoni, la maggior parte dei quali veniva posta in piedi e in fila per tre, mentre gli altri venivano collocati sopra a spiovente e formavano “ i’ cuperchiu o titto “).
Il termine deriva dal tardo latino casula,diminutivo di casa: capanna, casa piccola e isolata. Questo modo di disporre i covoni preservava il grano dalle piccole e brevi piogge, mentre in caso di forti e prolungati acquazzoni l’ acqua penetrava oltre la copertura e, per evitare che i chicchi di grano ammuffissero o “picchiassero” (germogliassero), occorreva scoperchiare le casole e con le gregne della copertura venivano rifatti i muntugni, così che le spighe asciugassero in fretta.
Quando si ieva accasola lu grano si partiva, sempre in due, col carretto intorno a mezzanotte così da poter iniziare a lavorare verso l’una e mezzo. I covoni dovevano essere smossi durante le ultime ore della notte e nelle ore più fresche della mattinata, prima, cioè, che si asciugasse la guazza (termine ormai desueto nella lingua italiana, forse tra i grandi della letteratura l’ultimo ad usarlo è stato il Manzoni).
Si passava con il carretto tra due file di muntugni e l’ aiutante da terra passava le gregne al carrettiere che le sistemava con metodo sul carretto. Questa era una operazione molto delicata e veniva eseguita da veri esperti in quanto il carico doveva essere ben bilanciato in modo che il peso maggiore ricadesse nella parte centrale del carretto e il mulo potesse tirare con la maggior libertà e la minor fatica possibili. Se il carico era sbilanciato nella parte anteriore il peso gravava sulla groppa del mulo che ,dovendo sostenere tale peso non aveva più la forza sufficiente per tirare il carretto, nel caso opposto le stanghe si alzavano e il mulo tirava praticamente a vuoto.
Le prime gregne venivano passate al carrettiere a mano, ma quando il carico si alzava venivano porte con la “ furcina “ ( forcone a due rabbi ). Completato il carico si procedeva a legarlo con due “canapi “ (corde di canapa dalla sezione grande ) in senso longitudinale. Per la costruzione della casola si procedeva in senso inverso. Normalmente con il carico di un carretto veniva costruita una casola.
Secondo l’umidità atmosferica il lavoro veniva interrotto tra le ore otto e le ore nove della mattinata perché nel momento cioè in cui la guazza si asciugava completamente i chicchi di grano uscivano facilmente dalla spiga e la perdita di grano diventava rilevante.
Quando si “ ieua aduna’ lu granu” (si portava il grano all’ aia e si costruivano le biche) si rispettavano gli stessi orari e le stesse modalità di lavoro sopra ricordati, con la differenza però che, essendo il tragitto più lungo e le mechi più grandi delle casole, il carretto veniva caricato molto di più e, pertanto, la legatura del carico doveva essere molto più stretta e a tal fine si usava “ i mulineglio “ (mulinello: cilindro di legno della lunghezza di circa 80 centimetri con due due grosse tacche, una per ogni estremità,dentro ognuna di esse veniva inserito un canapo e due grandi fori sfalsati dove venivano infilati due cunei lignei che servivano a far girare senza sforzo il cilindro stesso attorno al quale si arrotolavano i due canapi).
Il lavoro sopra ricordato mi risultava meno duro di altri sia perché si svolgeva al fresco della notte, sia perché rappresentava una ottima ginnastica per uno studente che aveva passato il lungo inverno seduto a studiare e che, a parte le lunghe camminate nelle giornate di sole, non aveva molte occasioni di svolgere attività fisica. Allora non c’erano palestre e l’unico sport praticabile era il calcio per il quale ero totalmente negato, tanto che per non essere escluso dal partecipare alle interminabili partite che disputavano i miei amici scoprii in me la vocazione di arbitro. Altro vantaggio del lavoro notturno era quello di lasciarmi la giornata libera da passare con gli amici, quando si è giovane basta un’oretta di sonno per recuperare le forze.
La
trebbiatura
Prima di parlare della trebbiatura debbo tornare un attimo indietro per parlare di un altro mezzo di trasporto delle gregne (covoni): la cascella (una specie di slitta ) che veniva usata nei terreni collinosi dove era impossibile andare con il carretto o da piccolissimi proprietari che possedevano solo l’asino e coltivavano a grano appezzamenti di terreno che andavano da ‘nu terzo ( circa 1200 metri quadri) a ‘na mesa misura (1818 metri quadri circa). L’uso delle cascelle, secondo quanto mi raccontava mio nonno Lillo si è estinto nei primi anni del XX° secolo. Da cascella deriva il soprannome della mia famiglia: “ Cascillitto “. La sola parte superore di due esemplari di detto mezzo di trasporto sono stati conservati da mio padre fino a metà degli anni sessanta del secolo scorso in onore e in ricordo di suo padre che le aveva usate per un lungo periodo della sua vita e, probabilmente, anche in memoria del soprannome della sua famiglia paterna.
L’ultima settimana di giugno iniziava la trebbiatura che, normalmente, si protraeva per una ventina di giorni, domeniche e festività del Patrono S. Lidano comprese. Le trebbie erano di diversa grandezza:
piccole,compatte,leggere e maneggevoli per terreni collinari e per piccolissimi appezzamenti;
medie per piccoli e isolati appezzamenti;
grandi per le grandi aie dove più contadini avevano concordato di portare il grano.
Il giorno della trebbiatura il contadino partiva con il carretto portando con sé, oltre alle “verte” (bisacce di tela) piene delle solite cose: cibo e acqua fresca, un congruo numero di sacchi di “ardica” (iuta).
Di questi sacchi se ne trovavano di varia capienza: piccoli fino a 80 chili, medi fino a 100 chili, grandi fino a110 chili. Di solito il proprietario scriveva le proprie iniziali su ciascuno di essi onde evitare che nell’aia venissero scambiati con quelli di altri. Come in tutte le categorie anche tra i contadini c’erano individui buoni e cattivi, onesti e profittatori per cui non era raro che qualcuno cercasse di approfittare della confusione tipica dell’aia per sostituire qualche suo sacco liso e rattoppato con uno nuovo del suo vicino. In gioco non c’era solo il valore del sacco ma anche la possibilità di perdere il grano per strada in quanto un sacco liso e rattoppato poteva strapparsi da un momento all’altro. Nelle famiglie contadine si soleva dire che il grano era al sicuro solo dopo che era stato riposto nel
granaio.
Alcune modalità della trebbiatura variavano secondo la grandezza della trebbia:
in caso di piccole e medie trebbie le gregne ( covoni ) venivano passate direttamente agli ‘mboccaturo, ossia a colui, di solito un giovane, che provvedeva a immettere nella bocca della trebbia la gregna dalla parte delle spighe,mentre nelle trebbie grandi le gregne venivano poste su un nastro trasportatore che dalla meta ( bica ) le portava fino agli ‘mboccaturo. Le grandi trebbie, inoltre, erano molto spesso munite di una macchina per fare le balle con la paglia del grano. Il contadino quasi sempre vendeva, a un prezzo irrisorio, la paglia sia a balle che sciolta e, quando non trovava l’acquirente, la spargeva nel terreno e la bruciava con le stoppie, operazione che serviva a pulire e a ingrassare il terreno.
Gli ‘mboccaturo per tagliare i fauzo delle gregne (legaccio fatto con lo stesso grano) si serviva di gli suricchiotto (piccolissimo falcetto) spesso ottenuto da tronconi di suricchi vecchi, anche se ne trovavano in commercio si ricorreva all’utilizzo di vecchi suricchi adattati alla bisogna per risparmiare. Erano tempi in cui si riutilizzava tutto e nulla veniva buttato, la società del benessere e dello spreco era ancora lontana.
La trebbiatura iniziava la mattina presto ma sempre dopo il sorgere del sole perché era necessario che l’umidità notturna iniziasse a dissolversi e terminava una mezz’ora dopo il tramonto quando cioè spariva anche l’ultimo barlume di luce.
Con la trebbiatura si separava il grano dalla paglia e dalla cama (pula, loppa). Con il termine cama in italiano si indica un genere di molluschi acefali che hanno la conchiglia irregolare e per lo più lamellosa (vedi Cerruti e Rostagno – Vocabolario della Lingua Italiana – S.E.I. – Ed. 1951), traslato nel dialetto sezzese sta ad indicare l’involucro del chicco di grano - .
Ogni trebbia aveva due bocchettoni, che venivano chiusi con due lamine d’acciaio, da essi
usciva il grano. A ciascuno di questi bocchettoni veniva legato un sacco d’ardica e venivano aperti alternativamente da un addetto che quando un sacco era pieno chiudeva il bocchettone e apriva l’altro.
Il sacco pieno veniva legato con un pezzo di spago alla imboccatura e pesato sulla bascola (basculla) o con gli bilanciono (simile ad una grossa stadera senza piatto, con un gancio superiore cui veniva infilato un randello che poggiato sulla spalla e un gancio inferiore cui veniva appeso il sacco di grano), il peso veniva annotato su un foglio sotto il nome del proprietario. I sacchi di ogni contadino venivano accatastati poco distanti dalla trebbia. Una volta terminato di trebbiare il suo grano il conttadino pagava il proprietario della trebbia in base alla quantità di grano lavorato.
Quasi sempre si presentava all’aia “i guardiano pe’ riscolle i diritto di guardiania”,che veniva pagato in natura secondo stime predeterminate alla quantità di terreno coltivato e all’ubicazione del terreno stesso, a volte si conveniva di effettuare il pagamento in contanti ed allora il guardiano andava a riscuotere a casa del contadino. Il diritto di guardiania era un istituto antichissimo, risalente credo al Medio Evo, quando le condizioni politico-sociali richiedevano che i campi fossero presidiati da guardie armate e la rendita dei terreni era molto diversa da zona a zona,ma ancora negli anni cinquanta del secolo scorso i terreni del campo setino, nonostante la bonifica degli anni trenta, avevano una
redditività diversa.
La guardiania aveva svolto una funzione sociale molto importante fino agli inizi del XX° secolo tanto che al guardiano la legge aveva riconosciuto la qualifica di guardia giurata, il diritto di girare armato e di usare le armi nello svolgimento delle proprie funzioni, il potere di procedere al fermo del ladro colto in fragrante con l’obbligo di accompagnarlo immediatamente nella caserma dei carabinieri e la sua deposizione faceva fede fino a querela di falso. Con il tempo e con il mutare delle condizioni economico-sociali, però, aveva assunto le caratteristiche di un balzello inutile e restava in vita solo per il ritardo della legislazione ad adeguarsi alla nuova realtà agricolo-sociale e per l‘atavico e rassegnato attaccamento del mondo contadino alla tradizione. Si usava dire, infatti, che “gli munno ha sempre ito accusì e nu’ puracci ci potemo fa niente” (il mondo è sempre andato così e noi poveri non possiamo fare nulla per cambiarlo).
Anche la trebbiatura ci è stata descritta in maniera idilliaca e nella nostra zona, dopo la bonifica delle paludi
pontine, è stata oggetto di una certa propaganda legata alla retorica di regime, ma la realtà era ben diversa in quanto gli addetti lavoravano nelle condizioni peggiori: caldo soffocante, pulviscolo di paglia e cama che penetravano in tutti gli orifizi del nostro corpo e che si incollavano sulla pelle madida di sudore e che rendevano difficile la respirazione e che seccavano e impastavano la bocca. Quando si alzava il venticello, di solito ristoratore, i disagi aumentavano perché la quantità di pulviscolo e di cama che investiva i lavoratori era maggiore.
Dall’aia al
granaio
Mio padre mi portava con sé all’aia per la trebbiatura solo quando stimava che la quantità di grano prodotta superasse gli otto - nove quintali e, pertanto, occorrevano almeno due viaggi per il trasporto e la mia presenza si giustificava per il controllo dei sacchi rimasti. Aspettando che egli tornasse dal primo carico avevo davanti a me una lunga, noiosa attesa di circa sei sette ore. Il tempo in cui non si ha nulla da fare non passa mai ed io mi aggiravo nell’aia, senza mai perdere di vista il cumolo di sacchi affidatomi, osservando il lavoro degli addetti alla trebbiatura e scrutando le facce dei contadini, ora soddisfatte del buon raccolto,ora deluse dello scarsa resa del loro campo. Tutti i loro discorsi, però, erano proiettati alla programmazione del lavoro futuro: la raccolta dei pomidoro era ormai pronta e, pertanto, occorreva andare a tracciare le vie e rimediare la squadra di braccianti agricoli per la raccolta, i cocomeri erano quasi maturi e si pregava che non piovesse altrimenti non avrebbero completato la maturazione e il raccolto sarebbe andato perduto, la vigna aveva bisogno di acqua ramata e di zolfo perché c’era un inizio di cenere, l’erba era pronta per la falciatura e/o il fieno da raccogliere ecc…
Non mancava mai un cenno alla famiglia: alla moglie troppo indaffarata, ai figli che non trovavano lavoro, alla figlia da sposare ecc… Spesso pensavo a mio padre e cercavo di immaginare dove potesse essere in quel momento e a mia madre che l’aspettava con ansia e trepidazione, sapendo che, pur di evitare qualche viaggio, mio padre era capace di trasportare una quantità di grano che sfiorava il limite massimo delle forze del mulo. Ricordo che una volta, avendo un mulo particolarmente forte e nel pieno della maturità, trasportò fino a Sezze un carico di undici quintali di grano. Solo i carrettieri, che avevano carretti più grandi e più robusti e che in salita attaccavano un secondo mulo “a bilancino”, erano in grado di trasportare fino a Sezze carichi superiori ai dieci quintali e si spingevano fino ai quindici quintali.
Fare i cinque chilometri di salita con il carretto carico, soprattutto nelle ore più calde, era un tormento perché si procedeva a passo lentissimo e ad ogni rampante occorreva fare lunghe soste di almeno dieci – quindici minuti per permettere al mulo di riposare e gli si attaccava al collo la “mangorgia”(un sacchetto di iuta o di tela resistente) così che potesse mangiare la giusta dose di biada con calma,cosa che non poteva fare sotto sforzo mentre gli riusciva benissimo mentre tirava il carretto scarico. Per evitare che “sbarrasse” (scivolasse) all’ inizio delle coste subito dopo “i’ ponto di gli ruuluco” ( il ponte sul torrente Brivolco) gli venivano calzate le scarpe che avevano le suole ricavate dai copertoni delle automobili e la tomaia di una speciale tela gommata con due cinghiette che venivano allacciate ai garretti.
I più poveri o i più avari al posto delle scarpe avvolgevano attorno agli zoccoli del mulo e legavano con lo spago delle pezze di tela di iuta ricavata da sacchi ormai non più riparabili. Quattro buone scarpe costavano una bella cifretta e non tutti erano disposti a spenderla, o perché non potevano permetterselo o perché erano tirchi per natura. Una volta giunti a Sezze il grano veniva portato a spalla nel granaio,che poteva essere di proprietà o in affitto ma sempre ubicato nel solaio dello stabile,con “gli piancito” (pavimento formato da assi di legno) sempre sottotetto e con almeno una piccola finestra senza imposte così che il locale risultasse aerato al massimo. Di solito al granaio, per non togliere spazio al locale sottostante, si accedeva attraverso una botola, arrampicandosi su una ripidissima scala a pioli mobile. Per portare il grano al granaio quasi sempre si ricorreva ai facchini, uomini molto robusti e dotati di una forza straordinaria in grado di salire quelle ripidissime e scomode scale a pioli portando sulle spalle un sacco di un quintale di grano.
A volte però era lo stesso contadino con l’aiuto dei propri familiari a portare il grano sul granaio, smezzando i sacchi e trasportando “pudicigni” (sacchi riempiti al massimo per metà) di quaranta- cinquanta chili. Il grano sparso sul “piancito” veniva “paliato” (rivoltato con una speciale pala di legno) due- tre la settimana onde evitare che i chicchi siti negli strati inferiori a causa dell’umidità che essi stessi, continuando l’essiccazione con conseguente rilascio di liquido, producevano ammuffissero o “picchiassero” ( germogliassero).
La “paliatura” del grano era riservata alle donne.
Con la mia iscrizione all’ Università, coincidendo le diverse fasi della raccolta del grano con la sessione estiva degli esami, passai il testimone a mio fratello Costanzo.
|
13
maggio
2014
a cura di Lidano
Serra Don
Titta Zarra,
il Parroco del Sorriso
Lunedì 31 marzo 1969 la Radio Vaticana, con il titolo “ Operaio delle onde”, dava il seguente commosso partecipato annuncio :
<< A Sezze Romano i funerali del sacerdote Giovanni Battista
Zarra, deceduto in un incidente stradale, sabato scorso. Personalità ed amici sono intervenuti per testimoniargli la stima e l’affetto. Li meritava per quelle doti singolari di bontà, di cultura e di operosità di cui dette prova nella sua vita di parroco, di insegnante, di studioso e pubblicista.
I nostri ascoltatori lo conoscevano come: don Titta.
Da anni era l’autore di intelligenti e vivaci rubriche della Radio Vaticana.
Umanità e genialità si armonizzavano con la sua fede schietta e trasparente. In lui l’uomo arricchiva il sacerdote e il sacerdote qualificava l’uomo.
La sua dote più spiccata era la versatilità, provata dall’ampia e varia collana di xilografie, così chiamava le recensioni di alcuni centinaia di libri i più diversi, che egli redasse per le nostre trasmissioni.
Nei lunghi anni di collaborazione furono anche i “Dialoghi della fede” e le meditazioni del mese mariano. Preparava con squisita sensibilità le elevazioni spirituali destinate a cogliere il senso di cristiana attualità, delle maggiori festività dell’anno.
Una delle nostre rubriche fu quasi esclusivamente sua. La rievocazione delle figure di santi e di beati nell’occasione della loro elevazione agli onori degli altari. Come molti ricorderanno, egli le preferiva in forma recitativa e vi si riconoscevano e apprezzavano le sue singolari capacità di cultore del teatro religioso.
Lo ricordiamo con rimpianto ed affetto. E affidiamo questa sua vita, così inaspettatamente interrotta, alla speranza cristiana dell’altra, definitiva e perfetta.
(da “Ecclesia Mater” – 2/69 – Pag. 127) >>.
Giovanni Battista Zarra, da tutti conosciuto come Don Titta, nato a Sezze l’otto
aprile 1917 (giorno di Pasqua) e deceduto, in un incidente stradale sulla Via
Appia, il 29 Marzo 1969, ancora oggi ricordato, con affetto e rimpianto, da tutti coloro che lo hanno conosciuto, e al quale a 33 anni dalla sua dipartita la sua città natale, con una semplice ma sentita cerimonia, ha voluto intitolargli la “Casa della Cultura”, prima che artista della penna è stato sacerdote e parroco.
Ordinato sacerdote il 23 giugno 1940, appartenne alla diocesi di Sezze. Esercitò il ministero fra i poveri a Colli di Suso e poi come parroco di Santa Parasceve in Sezze dal 1° aprile 1946. Dedicò le sue cure sacerdotali specialmente ai moribondi, ai bambini e ai giovani.
Intelligenza versatile e brillante si occupò come insegnante di religione dei liceali e come assistente ecclesiastico degli universitari e degli intellettuali della diocesi.
A Roma spese le inesauribili riserve del suo cuore e della sua cultura come collaboratore per diciotto anni della Radio Vaticana e come fondatore dell’Istituto del Dramma sacro.
Definito da Pio XII° “penna d’oro”, usò di questo suo talento come redattore di “Ecclesia
Mater” e di “Mater Ecclesiae”, collaboratore di “Tabor”, autore di libri e di versi.
Nonostante il suo impegno con la Radio Vaticana, le numerose missioni svolte, per lo più all’estero, per conto della Santa Sede, le varie commissioni vaticane di studio e di approfondimento storico nelle quali fu inserito, l’ impegno nella scuola quale insegnante, l’attività di redattore di più riviste e di scrittore mai volle lasciare la sua diletta parrocchia di “Santa
Parasceve” in Sezze, dedicandosi sempre con zelo, umanità,fede profonda e trasparente alla cura religiosa, spirituale e civile dei suoi parrocchiani, la maggioranza dei quali era composta da semplici ed umili contadini con i quali aveva un dialogo continuo, fatto di parole semplici e comprensibili a tutti, non meno che di opere di autentica carità.
Don Titta riusciva a farsi capire da tutti in quanto aveva il dono della semplicità, il dono
cioè di rendere accessibile anche ai più umili i principi, apparentemente più difficili, della dottrina cristiana. Celebri per comprensibilità e per concettosa brevità (massimo dieci minuti) sono le sue omelie domenicali.
Egli è stato il prete del sorriso, di quel sorriso dispensatore di serenità, in quanto frutto di una raggiunta e completa serenità interiore, che derivava da quella fede che solo le anime elette possono raggiungere. La sua anima era tersa come un cristallo e perciò capace di trasmettere a chi lo avvicinava,anche per una sola volta, una letizia liberatrice.
Carla Proia, alunna di quinta elementare, volle ricordarlo componendo la poesia che mi piace qui riportare, perché dimostra come i bambini sappiano riconoscere sempre il vero amore e la vera essenza di chi è loro vicino.
IL PARROCO DEL SORRISO
E’ morto il parroco del sorriso,
lasciando il dolore in ogni viso.
Amava ogni bambino come un fiore
e lo curava con immenso amore.
Or nella tomba la sua bocca tace,
però ha sempre per tutti parole di pace.
E’ morto mettendo una spina di dolore in ogni cuore.
Egli ospitava tutti coloro che non avevano amore.
E negli anni che è vissuto non si è mai lagnato.
La sua notte non era mai nera.
Diceva che nel regno dei cieli non entrerà la tristezza,
e rideva facendo ad ogni bimbo una carezza.
Nella sua tomba le sue mani,sono rigide e fredde e non scrivono più conferenze.
Or nella sua chiesa, i bimbi non sembrano più fiori
ma sembrano angeli sui cui visi è scolpito un ricordo di dolore
che è rimasto eterno nei loro cuori.
Anche se i suoi occhi non brillano più,
il suo ricordo è sempre qua giù,
nel cuore e nella mente di tutti.
Don Titta è vivo e palpita ancora di più.
La sua azione, però, non fu circoscritta all’ambito della sua parrocchia ma si rivolse a tutti i suoi concittadini, credenti e non, per i quali rappresentava un punto di riferimento sicuro e autorevole. La sua predilezione andava agli ultimi, ai giovani, ai bambini, ai moribondi. Incoraggiò e favorì le attività culturali. La sua casa era sempre aperta a tutti, ma la sua gioia più grande era quando riceveva i giovani, con i quali si intratteneva per ore e ore, spesso dimenticando, nonostante i solleciti della sorella, il pranzo o la cena.
Credo,pertanto, che Don Titta abbia incarnato il Sacerdote portatore di luce, vissuta nella purezza, donata nella parola, elargita nella dolcezza del perdono, effusa nell’operosità del lavoro, offerta al padre nel sacrificio.
Il suo motto era: “Nox mea obscurum non habet”, la mia notte non ha oscurità.
L’Arcivescovo Arrigo Pintonello, durante i funerali affermò, fra l’altro:
<<… il nostro amatissimo don Titta Zarra non è più! Un incidente mortale l’ha improvvisamente strappato al nostro affetto.
… Ogni umana considerazione, è impari a ridare pace ai nostri cuori. Non riusciamo a rassegnarci alla tremenda ed irreparabile realtà.
Scrittore e poliglotta,egli conobbe la letteratura, la storia, la teologia, la scrittura e la patristica come pochi; saggista e artista nato, …
… Amato dai suoi confratelli nella fede e nel sacerdozio, era parimenti ammirato e desiderato da coloro che la fede non avevano e la fede cercavano. Pure dotato di una intelligenza versatile che lo portò a spaziare in tutti i campi umanistico – letterario, egli amò sempre proclamarsi e dichiararsi, prima di tutto, sacerdote e parroco, il “dispensator mysteriorum Dei”.
E il dispensatore dei divini misteri, l’intermediario fra il cielo e la terra Egli fu per 23 anni ininterrotti, nella parrocchia di S.
Parasceve.
… Dall’alto dei cieli egli continui ad esserci ognora al fianco,
coll’assisterci e col confortarci nella quotidiana apostolica fatica. L’esempio delle sue virtù, del suo infaticato zelo per le anime e della sua fortezza nella fede ci sia di monito e sostegno nell’arduo cammino di ogni giorno.
“Euge, serve bone et fidelis, intra in gaudium Domini tui >>.
Il prof. Luigi Gedda, amico fraterno di Don Titta , aggiungeva a nome dei laici:
<<… La solitudine che in queste giornate è piombata su di noi, può essere soltanto rimossa da un sentimento di dovere: quello di rendere testimonianza della tua vita in queste mura solenni della Cattedrale di Sezze che per tanti secoli furono e sono la casa di Dio, di rendere testimonianza di fronte a Lui della tua vita.
Era come un destino quello che si preparava davanti a te quando nascesti nel giorno di Pasqua del 1917.Il mondo era sconvolto da una guerra e tu nascevi nel giorno del Risorto, Principe della Pace, in una terra nella quale forse più di ogni altra,il trapasso da una novità alla successiva doveva essere marcato,dalla bonifica delle paludi, dalla trasformazione del lavoro, dalla nascita di nuove città, e dalla riorganizzazione della vita ecclesiastica.
In questo mondo che così velocemente cambiò, hai saputo portare lo spirito evangelico di Cristo,con la tua mente penetrante ed agile.
Tu hai fondato e diretto riviste come quelle delle Figlie della Chiesa “Ecclesia
Mater”, “Mater Ecclesiae”; hai scritto libri e hai collaborato assiduamente alla rivista
“Tabor”, e ovunque hai portato la luce della tua intelligenza, l’annuncio della verità di Cristo. Nel tempo stesso tu hai evangelizzato con una sensibilità estremamente vivida che sapeva cogliere i sentieri dell’arte e farli convergere verso Iddio.
Ancora, tu seguivi nella vita dell’uomo quell’età particolarmente piena di sogni, l’età dell’infanzia: amando i bambini come pochi altri sanno amarli, come Gesù li ha amati. … Con la medesima intuizione apostolica hai dedicato il tuo lavoro alle onde che vanno per l’aere e seminano le parole dell’uomo moderno, collaborando alla Radio Vaticana con una presenza continua, sacrificata, estremamente feconda. Intelligenza,sensibilità, generosità, il tuo cuore era aperto e sconfinato come un mare, aperto a tutti, ma specialmente a tre categorie di persone che portavi in modo particolare nel tuo cuore: i moribondi, i lontani, ed i perseguitati.
Il primo dovere nella tua giornata, era quello di assistere i cristiani prossimi al transito. …
Per i lontani avevi arti apostoliche, sconvolgenti, ricche di vittorie. …
Ed ancora i perseguitati. Tu sapevi scoprire nella folla quelli che erano gli incompresi in alto, in basso, e ovunque vi fosse un cuore che doveva essere confortato. …
Ed è di questo tuo insegnamento portato al cristiano di oggi, perché sappia con l’intelligenza, la sensibilità, e la generosità dare il Cristo al mondo della tecnica, che noi siamo qui a ringraziarti, o don Titta. … “Nox mea obscurum non
habet”, la mia notte non ha oscurità. Tu lo dicevi a noi, per darci la sensazione che il tuo spirito andava al di là del dolore e giungeva sempre alla luce e alla gloria, alla pace e alla gioia di Dio. Quante volte ci hai confortato nei nostri dolori, dicendo che la tua notte non aveva oscurità!
E mi sembra che questo lo dici a quanti siamo qui atterriti per la tua scomparsa subitanea; tu sembri dircelo sorridendo, come sapevi fare e come spiritualmente fai anche in questo momento, rivolgendoti a ciascuno di noi: “non è un’oscurità la mia morte. … Non è vero, forse, che in un giorno in cui la Chiesa annuncia 35 nuovi cardinali, proprio in quel giorno, a me don Titta è stata data una porpora di sangue, a confessare davanti a Dio e al mondo il mistero del mio sacerdozio?”. … >>.
Pochi giorni prima della sua improvvisa e tragica scomparsa don Titta scrisse per la rivista “Ecclesia
Mater” (2/1969 – pp.gg.119 – 121) l’articolo “L’Ascensione preludio al fuoco” dal quale stralcio:
<<… l’Ascensione è il segno glorioso della liberazione ed il pesore umano scompare per seguire in volo Iddio. Da questa umanità che è stata trafitta per espiare, per riconquistare l’amore, dal Divino Martire pioverà sulla terra il fuoco dello Spirito Santo. Con Cristo che sale piove sulla terra la Grazia.
Da quale prigionia ci liberò il Cristo? Da quella che ci incatena alla terra e ci nega il cielo, da quella che toglie il sorriso dall’anima, da quella che ha fatto della terra, e solo della terra, nido di interesse e di gloria.
Ci libera dalla schiavitù della superbia che fece crollare Adamo. L’Ascensione ci riporta al respiro dell’umiltà, quella che fece cantare alla Vergine il Magnificat.
L’ Ascensione rianimò la terra. …
Ma l’Ascensione non è solo il prodigio storico che prova la divinità del Cristo, la sua onnipotenza. Essa rivela imminente l’Amore. …
D’all’alto, sulla nube, Lui, a guidare la grande conquista. E’ Lui che ha dato sapore alla vita e ci fa suoi amici, cooperatori: peccatori per la sua Grazia, sono strumenti di salvezza.
L’uomo non è più arido: è vivo, può guardare Iddio … >>.
Da un altro scritto di don Titta “La femminilità nell’apostolato”
(Mater Ecclesiae – 2/1967 – PP.GG.86 – 93) leggiamo:
<<… C’è una parola oggi che è di moda ma di cui – pare – si abusa. Questa parola è Libertà.
Non sto a rifarmi a Tommaso d’Aquino, l’unico filosofo cristiano che ha capito la libertà. Ci rifacciamo ai profeti. Chi erano i profeti?
Persone che dicevano sì al Signore, perché non schiavi di nulla. Ed erano gli unici ad annunziare la volontà del Signore e il suo amore, dalle delicatezze di un fiore e dal furore di una tempesta.
Vogliamo dire che la missione di una donna nell’apostolato avrà vitalità sorprendente se la donna è libera, cioè non legata da calcoli particolaristici, se la donna è libera come nel momento di Giuditta, di Debora, di Ester, di lei, la Madre Vergine. Le serve di Dio come lo fu Geremia. Serve , perché totalmente di Dio e non schiave, perché liberamente scelsero e furono prese da Dio.
Libertà che va insieme con il vigore. Bisogna capire l’amore di Dio. Non è un amore sentimento, è un amore – volontà. … Quando parliamo di libertà e di vigore, intendiamo parlare di quel tirocinio che distacca talmente l’anima dalle cose terrene e dalle passioni tipiche della femminilità, che rende l’anima agilissima alle chiamate del Signore.
Da questo distacco – e grande maestro in quest’arte è Dio, basta saperlo ascoltare – nascono i principi, le spinte all’apostolato, … E, secondo i tempi, questa femminilità santa ha lavorato, spinta da compassione, che è cosa più alta dell’amore, perché è immediata immolazione. … La fede è un tesoro inesauribile: a mano a mano che si segue
Gesù, il misterioso il tesoro si apre, si spalanca, rivela luci sempre più abbaglianti: la fede è fatta così: come una nube che ci precede, simile a quella donata da Dio agli ebrei dell’Esodo. … E si cammina dietro questa fede, tenacemente fino alla meta, in una perfezione progressiva, continua. … La femminilità è principio di raccordo e di vigore, … Se la donna vive questa missione, con la libertà a cui abbiamo accennato, il mondo sarà presto ripreso da Dio. … la donna può, come nessuna forza sulla terra. Questa forza per sua natura è elevante. … Sa infatti incitare, correggere senza spezzare la carità, donare senza far pesare, sa far vedere come si marcia verso Iddio senza appesantimenti di contorno … sa suggerire la preghiera. Sa morire, come le martiri. >>.
Cornelio Fabro su “Mater Ecclesiae” (2/69 – PP.GG. 106 – 128), ad un mese dalla scomparsa di don Titta, così lo ricorda:
<<… Artista, poeta, saggista, agiografo, drammaturgo, teologo di sicuro polso, don Titta, è stato soprattutto parroco, cioè pastore e direttore di anime: lo scintillio delle immagini, il fascino del ritmo, l’ardimento dei pensieri … corrono in lui verso il golfo misterioso del dolore e dell’amore per la luce ed il conforto delle anime, soprattutto di quelle anime scosse dal dubbio e travolte dal peccato. Una “theologia vitae” che è “theologia mentis et
cordis” perché “theologia crucis” la sua, senza ghirigori e tutta impeto di spirito evangelico. Aveva perciò orrore di ogni esibizione personale ed i pochi scritti che ha dato alla luce volevano solo orientare ed accendere una fiamma di bene e di speranza …>>.
Credo che il segreto della spiritualità di don Titta sia il tema del dolore, del dolore che redime nell’amore secondo quella che è la “Via Regia Sanctae Crucis”, in quanto egli, come l’Apostolo, vede tutto in Cristo Crocifisso.
<<… Non te la senti di amare così, scriveva il 26 ottobre 1955, Guarda che è l’unica maniera di amare, perché così si espia soltanto, non c’è altro metodo e altro mezzo, segretamente per l’umanità tua e degli altri. Dì come me … le parole ultime. Vincerai perché risorgerai e trascinerai anime dietro a te. E’ un ragionamento base che sembra sconvolgere la logica,ma che è l’unico, dato che tu sei il mio sacerdote. Se guardi però a fondo nella mia imitazione ci trovi la pienezza della ragione. Tu devi come me salire sulla Croce e devi spargere il tuo sangue con me e per me. Non lo predissi agli apostoli? Lo predico anche a
te>>.
Mi piace chiudere questo ricordo di don Titta, che il Signore mi ha concesso la grazia di conoscere e di frequentare assiduamente negli anni delicati della mia formazione, con le parole con le quali Cornelio Fabro chiude il suo commosso ricordo su “Mater
Ecclesiae”:
<<La predizione, caro indimenticabile don Titta, si è avverrata alla lettera un mese fa tra il costernato dolore di noi tutti. Hai versato il sangue
sull’afalto, sulla via che conobbe un quarto di secolo del tuo apostolato. Avevi scelto come motto “mea nox obscurum non
habet” e nelle tue note leggiamo questa tua idea cardine che ci sgomenta e insieme ci allegra il cuore: “Conosco – scrivevi – dei sacerdoti che fin dall’ingresso nella loro parrocchia non ebbero se non tribolazioni e noie, incomprensioni, disprezzo anche da parte dei superiori. Ebbene, questi umili sacerdoti hanno edificato chiese non solo materialmente ma anche spiritualmente. Tutto sta a vedere me con te. Non temere: per quando il demonio si scateni con calunnie, con accuse anche violentissime non ti potrà torcere un capello”. Così colmo di questi pensieri dell’amore che è forte più della morte, il nostro fratello in Cristo, don Giovanni Battista
Zarra, parroco di Santa Parasceve in Sezze, ha compiuto il suo martirio reclinando il sabato di Passione il suo capo schiantato e inporporato di sangue per amore delle
anime>>.
Lidano Serra
P. S.: lessi della morte di don Titta sul “Corriere della Sera” mentre ero a Monza a casa dell’allora fidanzata, oggi mia moglie, rimasi per circa 15 minuti inebetito e senza poter profferire parola alcuna. Al dolore della perdita del mio maestro migliore si aggiunse anche quello di non potergli dare l’ultimo saluto. La parrocchia di Santa Parasceve venne affidata a Don Antonio Tassi e alla morte di quest’ultimo, avvenuta il 13 settembre 1985, venne definitivamente chiusa. Oggi versa nel più totale abbandono e se non verranno presi urgenti provvedimenti tra pochi anni non resteranno che pochi ruderi. Mi auguro che tra l’amministrazione comunale, la curia vescovile e la sovraintendenza ai beni culturali venga trovato un accordo per salvare una delle più antiche chiese di Sezze, che sorge su una preesistente costruzione romana.
|