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La donna setina |
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pagina dedicata alla "donna setina" e corredata con le stampe della mostra tenuta a Sezze il 12 aprile 2013 alla 44° Sagra del Carciofo |
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Il riscatto della donna di Sezze articolo
a cura di Vittorio Del Duca "A Ferry On The Ninfa" - Penry Williams Sermoneta in the distance - a scene in the Pontine marshes, near RomeOil on canvas, Roma 1838 Bonhams101 New Bond Street, London, W1S 1SR, UK 1)-
Cintrutella: donna virtuosa o infingarda ?
La donna di Sezze
non ha goduto di una buona fama nel passato. Il Marocco nella sua opera
“Monumenti e Chiese dello Stato Pontificio” del 1835 , dà il
giudizio più duro: “ Merita biasimo l’ozio continuo in cui
vivono, cosa stomachevole e cattiva, lasciando esse ai loro mariti le
dure fatiche della campagna con una particolare indifferenza”. Gaetano
Moroni, nel suo “Dizionario di erudizione storico ecclesiastica” del
1854, riporta gli stessi giudizi del Marocco senza ulteriori
approfondimenti. L’Abbate,nella
sua “Guida alla Provincia di Roma” del 1894 afferma: “ E’
proverbiale la fecondità, come lo sono il loro ozio e la loro
infingardia”.Meno duro il giudizio del Lombardini nella
“Storia di Sezze”: "La donna di Sezze è di belle fattezze,
armoniosa, ma tendente all’ozio”
Questo
verdetto storico, che per secoli ha infangato il ricordo delle nostre
nonne, corrisponde a verità, oppure, come è facile pensare, fu
inquinato da sentimenti ostili a Sezze? Probabilmente,
gli autori citati si limitarono al “sentito dire” omettendo
l’analisi delle condizioni socio- ambientali dell’epoca, analisi
peraltro necessaria, per poter reintegrare la donna setina nel giusto
ruolo di lavoratrice. I
canti popolari dedicati a Cintrutella
(1) nome e simbolo della donna di Sezze e le frasi d’amore
che i nostri nonni le hanno cantato, “ Ti voglio guardà
schitto per dirti ca su bella” e “Ridammi le carezze se no
me moro” non possono essere stati ispirati
dall’infingardaggine, nè tanto meno ci possono far ritenere che le
nostre nonne siano appartenute ad una specie diversa. Questa
cattiva fama della donna setina sembra che fosse molto diffusa
anche nei paesi limitrofi, dove un antico proverbio, ancora oggi
conosciuto, consigliava :“ A Sezze marìtatici ma nun ti
ci assorà” (A Sezze fatti il marito ma non la moglie). Un altro detto che testimonia il diffuso sentimento antisezzese “Figlio, nun te tolle na sezzese ca t’arovina! “ (Figlio,non sposare una sezzese perché sarà la tua rovina), lo ritroviamo nella pianura sottostante, abitata, in seguito alla bonifica integrale e al boom economico degli anni 60, da immigrati del Nord Italia e di Amaseno, Roccasecca dei Volsci, Vallecorsa (2), con il quale si consigliava ai figli di non sposare una setina perché non sarebbe stata la donna giusta per un agricoltore. Le opinioni non erano diverse anche fra gli abitanti della vicina Conca di Suso; in questa zona, nella prima metà dell’ ‘800 si registrò una folta immigrazione di genti provenienti dal limitrofo Regno di Napoli (3), le cui donne, chiamate in seguito susarole, non persero occasione per raccogliere le accuse di infingardaggine alle sezzesi, le quali però , non rimanendone scalfite, accusarono, a loro volta, le susarole, di ignoranza e rozzezza. Ma nonna Cintrutella non dovette essere caratterialmente dissimile da tutte le altre donne dell’epoca, forse fu addirittura migliore e, senza dubbio, più bella, come asseriscono gli stessi autori che l’hanno diffamata, non valutando opportunamente la realtà socio ambientale che caratterizzava la comunità di Sezze. Stampa ottocentesca raffigurante una "Femme de Sezza" 2)
– Caratteristiche socio ambientali ed economiche di Sezze nel 1800 Il territorio
inferiore di Sezze, la vera risorsa del paese, era per 2/3 paludoso (4);
questo ambiente insalubre e malarico, rappresentava un grosso ostacolo
agli insediamenti umani, per cui il nostro contadino, a differenza di
altre realtà agricole, non abitava la campagna con la famiglia ma, come
naturale, preferiva un rifugio più sicuro nel paese, in collina. Quella
di abitare i paesi o i borghi era comunque una usanza comune a tutti i
contadini del centro sud (5) per ragioni di sicurezza, ma laddove
i luoghi erano malsani, come per la presenza di paludi, questa usanza
diventava una vera e propria emergenza. Così,
mentre da una parte si tutelava la propria salute e quella dei
familiari, dall’altra si creavano grosse difficoltà per recarsi
al lavoro, perché gli unici mezzi di locomozione erano le proprie
gambe, mentre il cavallo, il mulo o l’asino
rappresentavano un privilegio di pochi. Il
territorio di Sezze, inoltre, prima della Bonifica integrale e della
istituzione dei nuovi Comuni nell’Agro Pontino, era enormemente
più vasto di come lo conosciamo oggi, pertanto, considerata la grande
distanza, al pendolarismo si preferiva, soprattutto d’estate, il
pernottamento, tornando in paese soltanto il sabato sera. Il
ruolo principale della donna nella civiltà contadina in generale,
era quello di crescere la prole ed
accudire le faccende domestiche; la sua presenza nei lavori dei campi,
se non dettata da particolari necessità, si concretizzava negli
spazi di tempo che gli impegni domestici le consentivano e in quelle
operazioni stagionali di raccolta che, seppure faticose, non
richiedevano la forza fisica di altri lavori, come ad esempio cavare
fossi con la pala, dissodare il terreno con la vanga, “toccare”
l’aratro trainato da buoi ,ecc.
Stampa
ottocentesca raffigurante un "Costume of Sezza" (
la didascalia di stampa riporta il nome dell'autore Penry Williams
e dell'incisore Cramer ) A Sezze però, il
fatto di non abitare la campagna, non permetteva alle nostre donne di
utilizzare gli spazi di tempo da dedicare ai campi, per cui a degli
osservatori poco attenti potevano sembrare oziose; a ciò avrà
contribuito anche la loro abitudine di sedersi, nei pomeriggi estivi,
lungo le strade ed i vicoli del paese. In
realtà non era proprio così; infatti, tutti gli orti che si trovavano
attorno alla cinta muraria del paese, ormai quasi tutti cementificati,
venivano curati essenzialmente dalle donne, che sino agli anni ’50 vi
coltivavano broccoletti, farzarape, fagioli, broccoli, misticanze di
insalate, fichi, uva, e vi allevavano polli, conigli ecc, per venderli a
Piazza d’Erba o per le altre vie principali del paese, spesso anche
con servizio a domicilio, come faceva Pappinella, che aveva l’orto
sotto Porta di Piano, e che veniva spesso a rifornire la mia famiglia. La
cesa (6), o il pezzo di terra da coltivare era un privilegio di
poche famiglie, e quindi, per la maggior parte delle donne non esisteva
nemmeno la condizione dell’aiuto nelle dure fatiche della
campagna, che però non veniva fatto mancare in tanti altri
modi, come per esempio andando a servizio o a fare la bàlia presso
le famiglie più agiate, o a fare le fornaie, le cariatòre
(7), le sarte, le ricamatrici, ecc. Il
lavoro domestico assorbiva le nostre donne molto di più di quanto
possiamo immaginare oggi, anche se le esigenze di allora erano
molto diverse rispetto ai tempi nostri. "Donna setina" della fine del 1700 da una stampa francese impressa da D'Aubert La
comodità del rubinetto dell’acqua nelle abitazioni era completamente
sconosciuta e, se nelle case dei “camperi” e delle famiglie più
ricche si disponeva sempre di una cisterna per la raccolta delle acque
piovane, e in qualche caso addirittura di un pozzo “alla
romana”, nelle altre si vivevano condizioni di estrema indigenza e la
popolazione si arrangiava come meglio poteva. I bisogni corporali
venivano fatti addirittura nelle vie secondarie del paese (durante la
notte), come il Caùto e Vicolo della Speranza chiamato dal
popolo, sino a metà Novecento, la
Cacacciàra. Un
miglioramento delle condizioni di vita si ebbero solo quando Pio IX ,
nel 1866, portò l’acqua in Piazza De Magistris dalla Fonte
dell’Oro. Accendere
la legna per cucinare o solo per scaldare l’acqua a volte era
un’impresa da cui si usciva, dopo vari tentativi, con gli occhi rossi
e lacrimanti per il fumo, specialmente quando era fresca e stentava ad
accendersi. L’arte
del ricamo e del merletto era molto diffusa e la donna di Sezze, al
momento del matrimonio, doveva portare in dote un raffinato corredo di
lenzuola, asciugamani, federe, biancheria intima, tovagliati, fazzoletti
che andavano da un minimo di 12 pezzi per singolo articolo, sino a 24 o
36 per le benestanti. Le figlie dei campèri (10)
arrivavano addirittura a 48. Era
naturale che tutto ciò richiedesse un lungo e paziente lavoro di anni,
tanto che sin da bambine iniziavano a ricamare per prepararsi il
corredo da sposa, con l’aiuto delle mamme e delle nonne. I
corredi si preparavano con tessuti di canapa e lino locale; infatti nel
nostro territorio si coltivava anche la canapa e il lino (11). Le
piante di canapa raccolte, dopo la macerazione in vasche improvvisate
nella palude, venivano portate in paese e alle donne era affidato il
compito della scanapolatura, cioè di sfibrarle, sbiancarle e
ricavarne i fili con cui tessere lenzuola, asciugamani, e persino
tonache per sacerdoti o confraternite. I tessuti di canapa o
di panno, erano
resistentissimi, anche se un po’ ruvidi, e parecchie lenzuola e
asciugamani sono arrivati sino a noi, passati in dote da madri in
figlie. Uno degli ultimi laboratori per la tessitura della canapa,che
qualche anziano ancora ricorda, era quello di Nèna Petricca
in vicolo Apollo nei pressi della chiesa di S. Lorenzo. "Donna setina" della fine del 1700 da una stampa francese impressa da D'Aubert 3)
- Il laboratorio di Nèna Petricca a S. Lorenzo Nèna Petricca,
antesignana delle moderne donne imprenditrici, cominciò sin da
bambina a lavorare la canapa e il lino con i fusi nel laboratorio
paterno, che più tardi ereditò. Con la sua spiccata imprenditorialità,
il laboratorio, che si trovava a Piazza S. Lorenzo alla confluenza
con vicolo Apollo, divenne ben presto il più grande di
Sezze e l’ultimo di cui resta memoria. I suoi telai si dice che
occupassero un intero grande scantinato; molte ragazze vi si recavano
per imparare l’arte ed alcune sceglievano di restarvi come
lavoranti. Nèna
aveva fatto del suo laboratorio una ragione di vita, tanto che decise di
non sposarsi e di non avere famiglia. Viveva sola, era una donna esile
ma dinamica e coraggiosa e si dice che lavorasse persino di notte per
far fronte alle numerose commesse di lenzuola, asciugamani e panni vari,
ordinati come dote per le ragazze del paese. Fu devotissima a S.
Orsola, perchè raccontava che questa santa le appariva spesso in
sogno ed una volta le aveva addirittura predetto l’anno e il giorno in
cui sarebbe deceduta. Avvicinandosi tale data, tre giorni prima, Nèna
cominciò a curare il vestito che desiderava le fosse indossato da
morta, estraendolo da una cassapanca di legno massiccio in cui era
riposto da anni, e morì esattamente nel giorno e nell’anno indicato,
nel 1938 all’età di 80 anni. La notizia della sua scomparsa fece
subito il giro del paese e fu lo stupore generale, soprattutto del
parroco di S. Lorenzo, Don Alfredo, che ben conosceva in confessione i
sogni di Nèna e la predizione di S. Orsola. 4)
– Conserve, tùteri e tutarùgli Nella civiltà
contadina si doveva fare come le formiche; infatti in estate, quando
maturavano i frutti, si facevano le provviste per l’inverno, ma
non sempre le scorte erano sufficienti sino ai nuovi raccolti, come non
sempre questi, per colpa delle cattive stagioni, erano buoni, ed allora
era veramente la fame. Le
nostre nonne lo sapevano bene e non potevano permettere che i propri
figli ne soffrissero, per questo era un continuo lavorìo a conservare
la maggior quantità possibile di cibo, marmellate, olive, conserve di
pomodoro, sottaceti, caciofini sottolio, fichi secchi , sciuscelle (carrube)
ed essiccati come i pesci sottosale delle paludi, etc Quando
in Agosto si stutarava, c’erano i tuteri da svagorà,
ovvero le pannocchie di mais da sgranare, che gli uomini portavano in
paese con i carretti, ed erano ancora le donne a compiere a mano questa
opearazione. Il mais fu importantissimo nell’alimentazione umana, e a
Sezze la pizza roscia (pizza rossa, fatta con farina di mais)
costituiva il cibo di massa, perché il pane bianco fatto con la farina
di grano, non tutti potevano permetterselo. I
tutarugli (12) venivano usati “pe abbià
i foco” (13) nel camino e con i sfògli (14)
si facevano materassi e guanciali.. Non erano molto confortevoli ma
sembrerebbe che i mal di schiena fossero meno diffusi di oggi. Le
piume più tenere degli animali da corte, come degli altri volatili,
servivano solo per i materassi e i guanciali di pregio Gli
indumenti per tutta la famiglia, in lana o in cotone, venivano
pazientemente fatti a mano con i ferri ed ogni donna doveva
imparare a farlo, soprattutto canottiere, maglie, calzini,calzette,
scialli, ecc. I tempi di lavorazione erano lunghi perché per un paio di
calzini occorrevano 30 ore di lavoro, mentre per una maglia di lana di
taglia media, ne occorrevano 70. Chi era lenta o maldestra a
lavorare con i ferri veniva derisa con questa filastrocca: "Ogni
tre mìsci (mesi) na soletta, ogni tre àgni nà carzètta"
(tre anni per fare una calzetta e tre mesi per i rinforzi del
calcagno e della punta del piede). Le
famiglie con una decina di figli rientravano nella norma e quelle poco
numerose erano l’eccezione, perciò per le donne c’era veramente
tanto da fare per portare avanti la famiglia! L’ozio
era un lusso che soltanto poche signòre (15) si potevano
permettere. 5)
– A San Luca raddùca! Destituita
di ogni fondamento appare la storiella de gli orto mèio
(quando era il momento di vendere i carciofi) e gli
orto di marìtimo quando si doveva zapparlo. Nella
stagione dei carciofi, la donna per aiutare il marito nella raccolta, si
trasferiva con lui in campagna, nella rudimentale capanna di stramma
(strame) (16). Durante
la raccolta era la donna che ricacciava (17) i carciofi con il canistro
(18) sulla testa ed era proprio il marito che le affidava il compito di
incassare i soldi al mercato, confidando nella sua oculatezza. Un
trasferimento simile avveniva anche a fine estate, nel periodo
della vendemmia, quando non c’era nulla da incassare. Per
la fiera di S. Luca ( 18 Ottobre), quando tutti i lavori autunnali in
campagna erano ultimati, si ritornava immancabilmente in paese,
rispettando il detto e un’antica tradizione : A San Luca
raddùca !(19), anche per spendere parte di quanto faticosamente
ricavato. Ricordo
negli anni 60 e 70, le mogli dei numerosi coltivatori diretti, molte
delle quali ancora viventi, recarsi con i propri mariti, quasi
sempre con una Renault 4 (20), non solo per la raccolta dei
carciofi in primavera, ma anche in altri mesi, soprattutto Agosto e
Settembre, durante la campagna dei pomodori destinati allo stabilimento
locale della Cirio, che, in quel periodo veniva effettuata interamente a
mano. A scanso di ogni interesse ed equivoco, la Cirio e le altre
industrie di trasformazione pagavano poco prima di Natale i pomodori
conferiti dai produttori. 6)
- ‘Ntina “la giacchetta”: un esempio di donna tenace e
laboriosa ‘Ntina
“la giacchetta”, al secolo Clementina Tartaglia, nacque a Sezze nel
1866 e morì nel 1956 alla veneranda età di 90 anni. Era sposata con
Francesco Di Rosa, meglio conosciuto in paese come Chicco Trambolotto,
classe 1860, contadino. Chicco coltivava i carciofi “alle
piaie” (21), in località Rotturno (22), alle cosiddette
terre “ llà Sepia”(23), situate nel punto in cui oggi
sorgono le case
popolari a Sezze Scalo, nelle vicinanze dell’Ufficio Postale. In
quei tempi, Chicco, poteva considerarsi benestante, perché
aveva un mulo con cui effettuare lavori agricoli, anche per conto terzi,
e un carretto per trasportare prodotti e spostarsi dal paese alla
campagna. La
coppia era serena ma non aveva figli, e per questo ‘Ntina, non avendo
grossi impegni, spesso e volentieri si recava con il marito in campagna
per aiutarlo nei lavori agricoli, non disdegnandone alcuno. Tante
volte però veniva costretta a restare a casa proprio da Chicco, che,
ritenendo le donne non adatte ad alcuni lavori pesanti, soleva ripetere
“ ..zappàto da femmina e arratàto da vacca”,
cioè il terreno zappato dalle donne era mal coltivato, come
quello arato dalle vacche (e non dai buoi maschi castrati). Era
il 1915 e l’Italia entrò in guerra. Chicco, come tanti, fu chiamato a
servire la patria in armi. Il
distacco della coppia fu veramente doloroso, forse non si sarebbero mai
più rivisti e lui, in considerazione di tale eventualità, era più
preoccupato per ‘Ntinta che per sè, tanto che tra un bacio e un
abbraccio, con la voce rotta di pianto le consigliò di vendere il mulo
e di dare i carciofi “alla metà” (24) a qualche contadino di
fiducia, indicandogliene alcuni. ‘Ntina
gli rispose di non preoccuparsi per lei, ma di badare a sé
stesso e soprattutto di fare molta attenzione, perché ella non
desiderava altro che il suo ritorno, avesse dovuto aspettarlo per
tutta la vita. La
donna , forte di carattere, non si perse d’animo e non prendendo in
considerazione la vendita del mulo, si mise a coltivare i carciofi e il
granoturco del marito con l’aiuto saltuario di un cugino. Nottetempo,
si alzava alle due, caricava sul mulo alcune sacchette di granella di
granoturco che aveva sgranato nei giorni precedenti, e, dal paese si
recava al mulino ad acqua della famiglia Del Duca, vicino la sorgente
dell’Acquapuzza, nei pressi di Sermoneta. Al
ritorno, in paese trovava sempre qualcuno disponibile ad acquistare la
sua farina, richiestissima. Passarono
due lunghissimi anni, senza avere più notizie l’uno dell’altro; le
comunicazioni con il fronte erano impossibili. La
guerra terminò con la vittoria, e Chicco, assegnato dall’esercito a
presidio dei ponti nelle retrovie, tornò felice dalla sua
‘Ntina, sebbene rassegnato a dover ricominciare il suo lavoro tutto
daccapo. Indescrivibile la gioia di poter finalmente riabbracciare
la moglie, gli sembrava un secolo, ma grande fu la sorpresa quando
ritrovò il mulo a ruminare la biada dentro la sacchetta appesa al
collo, e seppe che il campo dei carciofi “ alle piaie,” non
solo era stato ben coltivato, ma aveva fruttato, insieme al granoturco,
un bel gruzzolo di soldi, che ‘Ntina, aiutata dalla sua tenacia e
dalle buone stagioni, era riuscita a mettere da parte, per la felicità
di entrambi. 7)
- Conclusioni I
fatti narrati, rendono giustizia a Cintrutella, donna bella, un po’
ambiziosa, ma non oziosa. Essa è stata raccoglitrice, contadina,
operaia, balia, fornaia, venditrice, tessitrice, ricamatrice ma
soprattutto madre operosa e amorevole. Note 1) – Cintrutella è il diminutivo dialettale di
Geltrude. A Sezze erano diffusissimi i seguenti nomi: Lillo, Peppo
(nelle sue varianti di Pappino, Pappinello e Pappineglio), Toto,
Ndina, Ndona, Ndruta (o ancheTuta), corrispondenti in ordine
a Lidano, Giuseppe, Salvatore, Valentina, Antonia e Geltrude. Numerose
anche le Maria e le Giuseppa , queste ultime chiamate in dialetto Pappinella. (2)- Attratti da una migliore qualità della vita, con il boom
economico degli anni 60 molti contadini di Sezze
cambiarono attività e vendettero la loro terra a pastori provenienti
soprattutto dalle valli di Amaseno, Roccasecca dei Volsci, Vallecorsa,
che qui trovarono terreni fertili ed irrigui per un’agricoltura
più ricca 3)- La popolazione di Suso provenne nei primi decenni del
1800 dalle zone povere del Frusinate, nel Regno di Napoli, in cerca di
migliori condizioni di vita. Queste genti furono in seguito chiamate dai
sezzesi susarògli e le loro
donne susaròle (4)– Tufo Vincenzo – Storia antica di Sezze – Veroli
1908 (5)– Inchiesta agraria Jacini – Atti della Giunta, Vol XI, pag.
120 (6) – La cesa (dal
latino coesa, ceduta), era un pezzo di terra di modesta
superficie, ceduta dalle parrocchie o confraternite con contratto di
colonia, dietro pagamento di un canone,quasi sempre in natura,
chiamato anche livello, dal latino libellus (libretto), perché il
corrispettivo veniva annotato dalla parrocchia proprio in un
libellus. (7) – Le cariàtore
trasportavano sopra la testa, a mezzo di cesti oppure di spase, i
prodotti che le si affidavano per il trasporto. Le più note sono quelle
che trasportavano i prodotti del forno (fornara
cariàtora) o più semplicemente (cariatòra) (8)- Il concone era un
recipiente per l’acqua in rame, a forma di clessidra, con due grandi
manici ai lati . Ad esso si associava un mestolo , chiamato scolamarèglio,
per prelevare l’acqua. L’arciòla
o rocciòla era invece
di coccio, a forma di cuore, ma con base piatta, aveva un becco per
versare l’acqua e due manici laterali per favorire la presa. (9) – La coròglia (corolla)
era costituita da un panno o anche un indumento, tipo maglietta, che
veniva arrotolato a forma di corolla di un fiore e
posto sulla testa per evitare lesioni e attutire la durezza dei
pesi trasportati, come canestri, spase, stagnarole, ecc. Per porli sulla testa, spesso c’era una richiesta di aiuto ad una
persona vicino: Aiutame a ‘mpòne! (10) – Campèri erano
coloro che disponevano, a qualsiasi titolo, di estesi campi da lavorare,
della conoscenza delle pratiche agrarie e
dei capitali necessari, per condurli e pagare le spese della
manodopera. (11)- Inchiesta agraria Jacini – op. citata (12) – I tutarùgli era ciò che restava delle
pannocchie di mais dopo averle sfogliate (dagli
sfògli) e sgranate. (13) – Abbià i fòco: espressione
dialettale che significa “ avviare il fuoco” o accendere il fuoco. Sfogli
e tutarùgli avviano il fuoco meglio della carta (14) – I sfògli sono la parte fogliosa che protegge la
pannocchia di mais. Quando il mais è secco, i sfogli diventano
come la carta. (15) – Le signòre erano le donne borghesi, o nobili e
comunque appartenenti alle famiglie più abbienti,( notabili del paese,
ed in qualche caso grossi campèri e bovàri).
Erano facilmente distinguibili per strada per i loro abiti
raffinati e completamente diversi da quelli delle popolane. Ci si
rivolgeva loro, in segno di rispetto, anteponendo al loro nome il
titolo Sora (romanesco di signora), come ad esempio Sora
Vitruvia, Sora Flavia, ecc. E’ da notare come anche i loro nomi
differissero da quelli delle popolane. (16) – Luigi Zaccheo - Pietra Fango Stramma - pag 64
– Ed. Novecento, 2006 (17) – Ricacciare un prodotto significa portarlo ai
limiti di un campo o in altro luogo dove può arrivare e sostare un
mezzo di trasporto, per poterlo caricare. (18) – Canistro
sta per canestro. Era un cesto fatto di canne e vimini e veniva portato
comunemente dalle donne sulla testa, mentre gli uomini lo
trasportavano a spalla. Un canestro “a pieno carico” superava
spesso i 60 Kg .Oggi è rarissimo vedere una donna con un canestro in
testa o un uomo portarlo a spalla, non solo per la legge 626 sulla
sicurezza del lavoro, ma anche perché non ci sono più persone disposte
a farlo. (19) – Raddùca sta per raddùco (ritorno a
casa). Il modo imperativo probabilmente ha lo scopo di forzare la
rima con San Luca, ma il detto tramandatoci è proprio
così. 20) – La R4 era la classica auto dei coltivatori di Sezze, perché
oltre ad essere economica e spartana, aveva u n baricentro piuttosto
alto che le permetteva di superare agevolmente le asperità dei
stradoni di campagna, ed in più aveva un pianale di carico piuttosto
piano e sufficientemente capace (ribaltando i sedili posteriori), che
permetteva di caricare e scaricare dal portellone posteriore sacchi
di concime o altre cose, senza la difficoltà e lo sforzo di sollevarli
dal pianale. (21) - Le piaie
sono terreni alluvionali pietrosi. (22) - Rotturno è storpiazione dialettale di
"Notturno" per via dei venti notturni che spirano nella zona,
provenienti da nord est, dalla cosiddetta Valle della Cùnnula. (23) – La Sèpia era probabilmente il nome o soprannome dei
proprietari. (24) - Dare la terra “alla metà “ significava concedere
un appezzamento di terreno ad un contadino o colòno, che si impegnava
ad eseguirvi tutti i lavori manuali, dalla semina alla raccolta, dietro
corrispettivo, in denaro o in natura, della metà dei prodotti ottenuti
dal fondo. L’ampiezza dell’appezzamento doveva essere adeguata alla
capacità di manodopera che il contadino e la sua famiglia era in grado
di prestarvi.
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Il costume tradizionale delle donne di Sezze articolo a cura di Carlo Luigi Abbenda Nel corso del 1800 , sulla scia di una riscoperta neo-classica di tutto il territorio italiano, molti artisti e studiosi intrapresero lunghi viaggi da tutte le parti d'Europa ( soprattutto dalla Francia, dall'Inghilterra e dalla Germania...) alla ricerca di luoghi da scoprire e da studiare sotto ogni punto di vista..) "Donna di Sezze" Incisione del 1830 di Filippo Ferrari Con
il passar del tempo, sul finire dello scorso secolo, molti editori,
oltre a pubblicare diversi libri o racconti sulle cosiddette
"passeggiate in Italia...", pensarono bene di
raccogliere in poderosi volumi, le esperienze grafiche dei pittori e dei
paesaggisti vari che avevano accumulato un gran numero di bozze,
acquarelli ed incisioni...lungo il loro peregrinare artistico in Italia. La città di Sezze, vicinissima a Roma per dislocazione geografica, fu meta di un interrotto viavai di artisti che, volendo visitare i dintorni romani e laziali, ritrassero gli angoli paesaggistici ed i costumi locali di tutto il Lazio e del nostro territorio pontino, inerpicandosi, tra l'altro, sopra tutti i paesi dei monti lepini.
Stampa
ottocentesca raffigurante un "Costume of Sezza" (
la didascalia di stampa riporta il nome dell'autore Penry Williams
e dell'incisore Cramer ) Di
queste passeggiate artistiche poco è rimasto circa il paesaggio ed il
costume setino. Alla
ricerca di qualche raro pezzo artistico ho avuto la fortuna di trovare
ed acquistare un foglio a stampa , presumibilmente appartenente ad un
volume grafico-pittorico sul Lazio o sull'Italia di fine ottocento, in
cui è abbozzato un quadretto di vita familiare immortalato proprio a
Sezze; in questa stampa è riportata la seguente citazione: "
Costume of Sezza " "Sezze, l'antica Setia dei Volsci, si erge su un angolo della catena dei monti prospicienti le Paludi Pontine, in cui si gode un esteso colpo di vista dalla sua elevata postazione geografica. La
moderna Sezze è una prosperosa città che ospita circa 2.500 abitanti. Dalla
città muraria dell'antica Setia ( famosa per il suo vino) ci restano
notevoli ed interessanti vestigia. Il costume di Sezze è
veramente grazioso: il bozzetto riportato quì sopra è stato composto
da mister Penry Williams." Oltre
che dalla citazione sopra riportata il riferimento a Sezze è dedotto
anche dallo scorcio paesaggistico inserito nella scenetta della
figura di donna sezzese: in essa si può scorgere il promontorio del
monte Circeo ). Chiedendo
scusa per l' imprecisione della citazione faccio notare che i
trafficanti d'arte , per un mero motivo molto venale e commerciale, per
vendere con più facilità e per moltiplicare i guadagni, hanno
disgraziatamente pensato di smembrare interi cataloghi d'arte italiana o
laziale vendendo singolarmente ( ed a prezzi da capogiro!) i fogli
riportanti le stampe e le brevi citazioni letterarie in essi
inserite.Tale opera vandalica rende a volte disagevole il lavoro di
scoprire il titolo esatto dell'opera e la sua precisa datazione. Del quadretto sopra descritto sappiamo che è stato composto dall'artista Penry Williams ( inglese, nato in Ynysfach agli inizi del XIX sec. ). Tale artista a soli 23 anni entrò a far parte dell' "Academy School of Art in London" . Venne ad esercitare la sua arte in Roma sul finire dell'ottocento ed ivi prese fissa dimora. Il suo capolavoro pittorico è il dipinto di una processione religiosa di Napoli relativa alla "Festa della Madonna dell'Arco" ( che si festeggia nel santuario omonimo di Pomigliano d'Arco il giorno del lunedì in albis ).
Stampa
ottocentesca raffigurante una "Femme de Sezza" ETATS
DU PAPE Ferrari
del. - Imp. de Ducarne -
Levilly Lith.e Femme
de Sezza - N° 29 - Donna di Sezza A
Paris chez P. Marino editeur, rue de Montmorency n° 13 A Firenze presso Antonio Campari da S. Trinita n° 548 |
“RITRATTO DELLA DONNA SETINA” La “Jeune fille de Sezze” del 1831 dipinto di Léopold Robert Una
mostra interamente dedicata al costume della donna di Sezze vissuta a
cavallo tra l’ottocento e il novecento. L’inaugurazione
si è tenuta venerdì 12 aprile 2013 alle ore 21 presso il Museo
Comunale di Sezze sito in Largo Bruno Buozzi dove sarà possibile
visitare l’esposizione nei giorni della 44° Sagra del Carciofo. La mostra si compone di undici riproduzioni fotografiche di stampe d’epoca che ritraggono la donna di Sezze con il costume tipico della metà dell’ottocento, e di trenta foto che vanno dalla fine dell’800 alla metà del ‘900. Forse non tutti sanno che, nel corso dei secoli scorsi, molti pittori europei trovarono ispirazione in Italia e, in particolare, nella campagna romana. Tale era la vasta pianura del Lazio, che si estendeva nel territorio circostante la città di Roma fino al Circeo con il piano collinare prossimo. Di notevole interesse furono i paesaggi, gli animali e la gente che viveva in quelle zone, compresa la zona delle paludi Pontine. Tra
le riproduzioni che abbiamo trovato, il dipinto di Robert Leopold
merita un’attenzione particolare, non a caso è stato scelto per la
realizzazione del manifesto. La “Jeune fille de Sezze” del 1831
nel libro Gassier, Pierre, Léopold Robert, Neuchâtel viene così
descritto: Il
viso e lo sguardo orientati verso lo spettatore, la giovane paesana si
stacca impassibile e leggermente imbronciata, su uno sfondo di paesaggio
dall'orizzonte basso e piuttosto desolato. Lei è vestita con un
corpetto rifinito con granato verde che Robert sembrerebbe aver
acquisito a Sezze durante l'estate 1829, e di cui tiene delicatamente i
laccetti. A
tal proposito ringraziamo Le musée des beaux arts La Chaux de fonds
nella persona della signora Sophie Vantieghem per la disponibilità e
cortesia con cui ci ha concesso l’autorizzazione di riprodurre su tela
il dipinto originale per questa esposizione. Le restanti stampe, tutte raffiguranti la donna di Sezze, si caratterizzano per gli abiti colorati ed una acconciatura che non ha eguali con quelle delle donne dei paesi vicini. |